BROLO ED IL MARE – LE FOTO ED UN VECCHIO GOZZO PER RIVENDICARE LE ORIGINI DI UN BORGO… CHE UNA NUOVA RICERCA DIVENUTA PUBBLICAZIONE LO VUOLE TUTTO BIANCO E ARROCCATO INTORNO AL CASTELLO.
Iachino è sicuramente l’ultimo pescatore-simbolo tra quelli brolesi.
Alcune foto – anche sue – per raccontare, tra volti e gesti, un pezzo di una Brolo che non c’è più, quella dei pescatori.
Pescatori che vivevano in quello che era il borgo del paese, sulla rocca del castello, tra case imbiancante, come emerge dai nuovi studi sul quel centro storico, che solo nel ‘900 trovarono spazi lungo l’attuale marina.
Gli abitanti, poco meno di 2000 ancora lo vivevano specchiandosi sulle acque sottostanti, quelle del mare che nel lambiva la rocca mentre il porto, che perdeva mese dopo mese ogni appeal, era a ridosso della Consolare Valeria agibile dal tardo settecento nelle forme che più o meno vediamo oggi.
Così quel passaggio dalla torre verso il mare, o meglio dai primi contrafforti di pizzo Rocchetta dove c’era la vecchia Croyx, sopra l’attuale Piana, sembra tracciare il confine tra due mondi, quello di terra, contadini, braccianti, ‘ncasciattturi e rimunnaturi, fino a manovali, imbianchini e sensali, e quello del mare, il Sud del mondo.
Ma i confini sul mare sono per loro stessa natura liquidi ed effimeri, così come i confini tra i gesti degli dei dell’antichità classica e quelli dell’umanità ferita che nell’isola di Verga viveva e resisteva.
Iachino, poco importa il cognome, che era Bongiorno, vita travagliata, immigrazione come tanti, ma lui va in l’Australia, muscoloso e dalla grande quanto incolta barba, prima color oro poi ramata, richiamava quando usciva in mare la figura di Tritone, il figlio del dio del mare, per metà uomo e per metà pesce.
Se oggi a Brolo uno dice pescatore pensa a lui.
Forte e generoso. Un bell’uomo dentro e fuori.
Ma di lui parleremo a lungo in un prossimo articolo.
Carlo Levi, durante uno dei suoi viaggi nella Sicilia del secondo dopoguerra, esperienza da cui nacque il libro Le parole sono pietre (1955), ebbe modo di visitare il borgo marinaro immortalato da Verga ne I malavoglia e da Visconti ne La terra trema.
Un borgo e la sua umanità simile per storie, dolore, fatica, a tutti i borghi costieri isolani.
Da quelli dei faraglioni catanesi a quelli delle Egadi, delle Eolie e di Brolo, e raccolse le impressioni di una signora straniera che, come lui, viaggiava alla scoperta dell’isola: “le era parso di passare in mezzo a un popolo di dei tanto era chiaro in ciascuno che il suo viso, i suoi gesti, le sue vicende, il suo destino, erano fissati ed eterni, non seguendo una storia individuale ma uno stile o un costume a tutti comune ed immutabile.
Non mi sembrano uomini, donne, bambini di oggi, ma alberi di una foresta, o esseri antichi, come gli dei.
Mi pare che qui tutto debba essere sempre stato così e che sarà sempre così”.
E tornando a Brolo.
I pescatori erano forse l’anello ultimo, più debole della catena sociale. Rimanevano attaccati al “mare” e difficilmente accettavano di andar nei “magazzini”.
Oggi la festa del mare, con tutto il suo corollario, tra folklore e fede, vorrebbe raccontare di quell’unione tra pescatori e paese.
Non ci riesce.
Dimentica anche un santo, San Pietro, portato in processione fin quando visse l’avvocato Giuseppe Gembillo, era il loro Santo, ma a guardar bene la loro festa- davvero pagana e godereccia- è sempre stata ‘antinna a mare.
Difficile che uno della campagna, abituato a far orti, poteva correre lungo il palo insaponato, anzi fatto di saio e grasso, che pungeva l’orizzonte fatto del sole pomeridiano dell’estate siciliana.
Una festa che per loro diventava palcoscenico, come quando scendevano “‘u consu”, tiravano le nasse, portavano in bella vista le casse con i “pesci porci”, o tiravano le grandi barche di Don Mimmo.
Un palcoscenico dove raccontar di gesta impavide, di grande calate di un magico “lontru”, di amori e canzoni, di drammi umani, con le donne sull’arenile ad aspettar, mente i fulmini illuminano le Eolie, che tornassero a riva.
Gente abituata alle sfide, tra gli umani e la sorte, custodi di segreti “profondi”, di punti che univano un campanile, un albero e il castello delle ciavole, per scoprire il punto giusto per epiche pescate di totani e cavagnole.
Lavoratori del mare che mai hanno avuto un porto sicuro, un approdo, una boa affidabile.
Gente che usava l’amo, le reti, e le “bombe”, quelle con l’acetilene e la vecchia bottiglia della gassosa con la pallina, tirata in mare per aver un miglior pescato da issare con i coppini di rete, mentre a riva i bambini facevano festa prendendo i pesci agonizzati e con la vescica natatoria spappolata con le mani.
Come quelle che qualche pescatore di frodo, in tal modo, le ha perse.
E così – ‘antinna – era l’occasione, la migliore, per mettere in mostra le proprie doti fisiche e virili dinnanzi l’intera comunità che dalla vecchia colonia o dalla casa della Gorgona li guardava, e si finiva tutti a bere nella taverna di Don Santo, arrostendo quel che restava del pescato e che i “riatteri” non avevano preso per venderlo (con una strana quanto unica unità di misura … a piatto).
Ma tornando “a ‘ntinna”.
La loro vera festa, popolare, popolana, affollata.
Venivano anche da Gliaca e da San Gregorio per parteciparvi.
Il carretto ammollato era quello di “Nino Primo”.
La bandiera – in palio – fissata all’estremità del palo, una volta strappata dal suo posto, sarebbe andata in gioco ai figli, ai loro amici, ma era un vero e proprio trofeo, da conquistare e da ostentare alla folla e non ci faceva nulla se gli scivoloni creavano problemi alle ginocchia, arrossavano le cosce abbronzate, slogavano piedi mai abituati a scarpe.
L’impatto violento dei corpi nudi dei pescatori, era tonfi sordi, anche di costole spezzate, che diventavano con il rumoreggiare della folla, la colonna sonora dell’evento.
Spesso si finiva a mare, sempre meglio che sul duro e scivolosissimo palo.
Poi la banda suonava, il vincitore prendeva tutto, spesso cibo, quattro soldi, sigarette che sarebbero servite quando sarebbe ridisceso in mare, mentre il cavallo – innervosito dalle mosche e dai ragazzi che gli tiravo sassi e sabbia – riportava in secco il grondante carretto appesantito da sacchi di sabbia che ne avevano dato maggior stabilità.
I pescatori brolesi, i Tumeo, i “Maniele”, gli Svelti, i Dovico, i Perdicucci, i Ricciardo Rizzo, i Briguglio, i Cardaci, i Genua, e poi Saghes, Gorgone, qualche Cipriamo sfuggito dalla “chianca” … – tanto per far qualche nome – che facevano un tutt’uno con gli Scarpaci, i Giardengo quello che”banniva” il pescato portandolo in giro per il paese con la sua bicicletta, ed i Paviolo, non erano certamente gli intrepidi marinai, che se la vedevano con le grosse balene alla Moby Dick e le spaventose tempeste dei Capitani Coraggiosi, non gestivano “la tempesta Perfetta” che ha protagonista George Clooney, ma in tempi non troppo lontano sono stati grandi e veri protagonisti di peripezie marinaresche, d’incontri con i capodogli, ammaliati dal canto dei delfini, di appuntamenti, non amichevoli con le marinerie liparote, di storie di amicizie, sempre alla ricerca di migliori condizioni lavorative e di vita per dar da mangiare a figli e mogli, alla generazione successiva alla loro, che potendo con i loro sacrifici studiare, ha scoperta che si può vivere lontano dai sacrifici, dalle reti e dagli ami di nonni e genitori.
Molti dei pescatori brolesi, che ora con rispetto guardano il “loro” mare, hanno vissuto e realizzato il proprio sogno giovanile: una casa dignitosa per una bella famiglia e hanno visto come il “loro borgo” – quello nuovo a ridosso dell’arena, del cinema., del grande magazzino delle botti, del pesce salato, del bar di Donna Vittoria, della segheria nata dalla società tra Nino Scaffidi e Bastiano Giannitto – abbia conosciuto, uscendone devastato, la speculazione edilizia, che ha cancellato tracce e memorie di un epopea.
Una storia finita con le grandi barche, e che ha visto andar via anche i luoghi dei loro “dopopesca”.
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