– di Corrado Speziale –
Domenica scorsa, nel concerto svoltosi al Palacultura Antonello nell’ambito della 101.ma stagione concertistica della Filarmonica Laudamo,
Il concerto, fondato sull’improvvisazione, ha rivelato nel “top jazz” di Merano, maestro di generazioni di musicisti e persona affabile, qualità artistiche introspettive e creative difficilmente eguagliabili. Straordinario il rapporto col pubblico: grande sintonia e “comunicazione” solo attraverso il pianoforte, con ringraziamenti silenziosi, senza pronunciare una parola. Tipico di chi fa composizione istantanea. D’Andrea nel week-end aveva condotto un workshop in due sessioni sulle “aree intervallari” con l’ensemble della Filarmonica Laudamo Creative Orchestra.
La storia c’era, eccome, e la si poteva avvertire solo avendo particolare attenzione e devozione verso tanta cultura musicale. Oltre cinquant’anni di carriera, d’altronde, per chi come Franco D’Andrea, nota dopo nota, passo dopo passo, esplora e rivela sempre mondi nuovi con incomparabile passione e voglia di ricerca, sono il segnale tangibile dell’universalità e dell’immortalità del jazz. Ma non limitiamoci a categorie, né generi. Questa dimensione, quantunque basata su esempi e narrazioni storiche, non sta sugli scaffali di un supermercato. È arte e pensiero allo stato puro, condizioni elaborate e maturate nel tempo, che tuttavia non trascurano mai d’accompagnarsi a qualcosa di ludico, di spontaneamente geniale.
Ha pienamente ragione Luciano Troja, direttore artistico della Laudamo: “Alcune cose sono difficili da scrivere, allora bisogna ascoltarle…”. Per cui talvolta trasferire delle sensibilità dall’orecchio al racconto, è un’impresa ardua. Nella maggior parte dei concerti “piano solo” si possono scegliere e sciogliere parole, situazioni, emozioni. Ma riguardo alla performance di Franco D’Andrea al Palacultura, tale operazione è davvero difficile. Ma la mission non è impossibile: il concerto contiene tanto, forse tutto. Dunque, può essere sufficiente affidarsi al magico gioco delle percezioni.
Quello di domenica è stato un concerto “piano solo” di rara intensità e profondità. Il maestro di Merano ha dato al suo progetto estemporaneo un’impronta molto personale: partendo da importanti paradigmi attinti dal suo vasto background, ha aperto spazi densi di interesse, dai colori tenui e ricercati, improvvisando in maniera originale, lontano da stereotipi, senza didascalie.
Al Palacultura il pubblico ha vissuto un’esperienza nel segno della rinnovata purezza della musica, espressa da uno dei più grandi cultori e maestri contemporanei, dall’eccellente carriera costruita a cavallo di due secoli.
D’Andrea creava percorsi da un progetto istantaneo, partendo da minime, talvolta basilari, altre volte appena percettibili, situazioni storicamente riconoscibili (Monk, suo grande ispiratore, Gershwin, Hancock, altri classici…) che via via articolava lungo fronti e spazi ragionati al momento, imprevedibili e interessanti per l’ascoltatore. Il tutto, cercando di dare sempre un senso corretto e compiuto ai suoi passaggi, incrociando tempi e stili con originalità, ma anche con sapienza e rigore, senza eccessi, e senza mai fare ricorso ad artifici retorici, forzatamente estetici, così come accade nella grande maggioranza dei “piano solo”. Un profilo sincero, elegante ed impegnato, dunque, tipico dei grandi maestri.
Egli sentiva le note formarsi, accompagnando il suono come se lo emanasse da dentro: sensazione unica di chi, dotato di straordinaria sensibilità, da polistrumentista ha suonato vari strumenti a fiato.
Con la sua improvvisazione, Franco D’Andrea, in un’ora e mezza di concerto, articolato in otto brani concepiti da una mente colta, dal pensiero libero, ha dato senso alla sua forma espressiva raccontando storie e prefigurando visioni. Tutto stava a saperle intercettare, secondo relazioni e percezioni che ciascuno coglie e vive a modo proprio.
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