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PISCOLOGICA”MENTE” – Tu menti!

 

 

 

In pratica tale tecnica, partendo dagli studi sulla classificazione dei movimenti muscolari del volto umano,  servirebbe ad identificare lo stato interno ed emozionale della persona tramite l’analisi delle microespressioni facciali: attraverso l’analisi dei micromovimenti che il volto umano può produrre si ottengono delle indicazioni sui pensieri e le emozioni nascoste del soggetto.

Così come viene proposta al grande pubblico tale tecnica sembra uno strumento miracoloso, in grado di conferire un enorme potere a chi ne ha la padronanza: conoscendo le microespressioni facciali, possiamo capire meglio l’altro ed identificare eventuali menzogne o incongruenze. Non è da sottovalutare poi il fatto che tale tecnica ci consente di evitare di andare in giro con un poligrafo (meglio conosciuto come macchina della verità) ad attaccare elettrodi e rivelatori vari sulle persone che incontriamo: c’è un risparmio economico, di fatica e, se siamo abbastanza discreti, ci guadagniamo in salute (va detto che comunque prima o poi qualcuno vorrà riempirci di botte se andiamo sempre alla ricerca di menzogne sul volto della gente, con o senza elettrodi).

Ed ecco allora che ci troviamo ad assistere inermi ad una vera e propria invasione –  di proporzioni bibliche aggiungerei, un po’ come la piaga delle cavallette ai danni degli egiziani – nei vari media (giornali, televisioni, radio e internet) ad opera di professionisti e sedicenti esperti in grado di riconoscere il “bugiardo di turno” dal minimo movimento e/o espressione facciale: “ha mosso la spalla quindi … si è toccata il naso … la forma della rima labiale, disgusto, rabbia, ecc. ecc.

Importanti fatti di cronaca vengono dunque riletti e “approfonditi” grazie all’ausilio di queste tecniche, che per il fatto stesso di essere delle “tecniche” sembrano conferire automaticamente il dono dell’obbiettività/oggettività a chi le utilizza. Ora, il principale problema dell’abbondanza, che in questo caso riguarda appunto la folta schiera di professionisti/esperti/opinionisti, è che non sempre è correlata alla qualità, anzi. A ben vedere è successa la stessa cosa con la psicanalisi, con tutte quelle schiere di professionisti che intendevano applicare tale metodo semplicemente ripetendo a pappagallo quello che aveva detto e teorizzato Freud, riducendo così la psicanalisi ad una sorta di “frasario essenziale per passare inosservati in società”, per dirla alla maniera di Flaiano.

Personalmente faccio sempre ricorso alla lettura del comportamento non verbale nel mio lavoro (durante le sedute di psicoterapia con i miei pazienti, sessioni di formazione ecc.) non tanto con l’obiettivo di capire se chi ho davanti mi sta raccontando la verità o una valanga di cazzate, ma semplicemente perché la ritengo una preziosa fonte di informazioni, un ulteriore canale “narrativo” che, se opportunamente contestualizzato (contestualmente a uno specifico argomento narrato dal paziente ad esempio), può implementare il racconto con vissuti, tensioni, informazioni sulla rilevanza dell’argomento e sulla qualità della relazione in quel momento di cui spesso non si è neanche consapevoli. Quando parlo di comportamento non verbale ovviamente mi riferisco a tutte quelle variabili comunicative espresse dalla postura, dalla gestualità, la mimica facciale, l’abbigliamento, dal paraverbale (tono, volume, ritmo, velocità, sottolineature, pause, esitazioni …) e dalla prossemica (gestione dello spazio, tempi ecc.). Le informazioni che ne ricavo sono chiaramente il frutto di un processo di interpretazione che fa riferimento ad uno specifico presupposto epistemologico, secondo il quale l’accesso diretto alla realtà e ai suoi dati oggettivi non è possibile: ogni conoscenza non sarebbe che un’interpretazione del mondo in cui siamo immersi; la descrizione della realtà rispecchia le strutture percettive dell’osservatore, influenzate dalle proprie reazioni emotive e dall’organizzazione personale delle informazioni (Montesarchio et al., 2004).

Quando si parla di scientificità, di tecniche e di obiettività, mi viene sempre il dubbio che ci si muova invece da quelle premesse epistemologiche “tradizionaliste” che per secoli hanno orientato le scienze allo studio di strutture permanenti, immutabili e universali, incoraggiando quindi la ricerca della “verità” e di tutte quelle categorie invarianti e immutabili nel tempo che definirebbero l’agognata nonché sospirata “oggettività”. Già Heisenberg negli anni ’20 del secolo scorso dimostrò come un elettrone non segue più lo stesso percorso, se l’osservatore per studiarlo lo irradia con un fascio di luce. Di quale obiettività stiamo parlando dunque? Pensiamo allora a tutto il discorso sull’ empatia e sui neuroni specchio, senza entrare qui nel dettaglio per non dilungarci troppo: se l’esaminatore o l’utilizzatore di FACS di turno ha una giornata storta o, peggio ancora, dei pregiudizi nei confronti dell’esaminato, è possibile che influenzi in qualche modo le espressioni e le emozioni del “bugiardo di turno”? Sia ben chiaro: non sto mettendo in discussione l’utilizzo della tecnica in sé, bensì l’uso che ne viene fatto in certi contesti.

Prendiamo ad esempio in considerazione quelli che solitamente vengono considerati elementi comunicativi biologicamente determinati. Da tempo è  ampiamente riconosciuto come l’interazione umana si basi su un set di strumenti comunicativi, anche complessamente strutturati, verbali e non verbali, biologicamente determinati e specifici della nostra specie. Tuttavia l’uso di tali elementi comunicativi elementari e la loro combinazione in strutture comunicative più complesse è comunque modulato dai codici culturali appresi durante le prime fasi dell’allevamento e della socializzazione. Una dimostrazione elegante dell’importanza dei fattori contestuali e culturali nell’interpretazione di alcune espressioni e segnali comunicativi ce la da  Eibl-Eibesfeldt (1975), studioso di etologia umana che ha approfonditamente studiato con il metodo etnocomparativo le modalità dell’interazione umana,  osservando in particolare il pattern espressivo utilizzato nel caso del “saluto amichevole a distanza”: tale forma di saluto è universale e stereotipata, si ripete cioè con uguali modalità in tutte le culture studiate e consiste nel rapido sollevamento dei sopraccigli, combinato con un sorriso, un piccolo movimento della testa all’indietro seguito da un movimento della stessa in avanti. Questa combinazione di movimenti viene universalmente interpretata come saluto, ma l’appropriatezza di tale saluto varia profondamente al variare dei contesti, ovvero secondo le diverse culture: i giapponesi, ad esempio, sebbene lo usino frequentemente ed inconsapevolmente, con i bambini, lo ritengono inappropriato nell’interazione fra adulti; i Samoani al contrario sono estremamente inclini a farvi ricorso e lo utilizzano appropriatamente anche con gli estranei; nell’Europa Centrale, è sentito come appropriato solo nel caso dell’interazione fra amici stretti. In questo modo un Samoano potrebbe essere percepito come ‘sfacciato’ e inopportunamente aperto ed amichevole anche con gli estranei, tanto da un Giapponese quanto da un Europeo, che non sia in confidenza con lui, ma al Giapponese l’interazione fra due amici europei evocherà d’altra parte una sensazione di rapporto infantile, ugualmente inappropriato fra adulti. Il Samoano, da parte sua, troverà Giapponesi ed Europei freddi ed ostili. (Silvestri et al., 2007, p. 89).

In questo senso allora, espressioni, posture, categorie, codici, concetti, segni e tutti gli altri strumenti di significato non vanno considerati come categorie fisse o fissate una volta per tutte – e dunque indipendenti dal loro utilizzo, dal tempo e dai contesti in cui vengono usate – ma piuttosto come dei segni aperti, i quali acquistano significato entro situazioni di scambio sociale tra gli attori ed in accordo al loro utilizzo stesso. Diffidate dunque da chi vi propone “dizionari abbreviati per smascherare i bugiardi”, in quanto per leggere correttamente le microespressioni facciali e tutti quegli altri segnali che costituiscono il linguaggio non verbale occorre una mente allenata a tenere insieme i vari livelli di lettura e gli aspetti contestuali. Solo partendo da una prospettiva epistemologica post-moderna, in grado di fare i conti con la complessità dei fenomeni osservati, piuttosto che con l’ipersemplificazione degli stessi, si può in definitiva evitare di compiere errori di valutazione grossolani.

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