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PSICOLOGIA & CRONACA – !Femminicio!: il diritto di ogni uomo

 

 

Ha ragione il movimento femminista a collegare ruolo della donna e sua oppressione allo stupro. […] Né menti malate né raptus, come ne parlano gli egregi difensori degli stupratori nelle loro fiorite arringhe; il potere virile si è sempre affermato, seppure per varie intensità di gradi, con la forza fisica. E la ribellione va punita. La lezione deve servire a mantenere la donna assoggettata.

Oggi la guerra è più evidente perché la donna sfugge alla privatezza, vive maggiormente fuori dalle pareti domestiche: la violenza privata diviene così un fatto pubblico. La tortura quotidiana dello schiaffo, della percossa, dell’aggressività parolaia sfocia nel massacro sessuale sui prati, sui sedili delle auto, in squallidi scannatoi di periferia. Ma il femminicidio quotidiano non avrebbe da solo raggiunto queste drammatiche proporzioni se non fosse sorretto e agevolato dalla violenza delle istituzioni nei suoi anche meno palesi messaggi (Maria Adele Teodori “Cresce la rabbia dopo tanti stupri,anche psicologici. In La tentazione del femminismo armato, 4. 4.1977, “StampaSera” n. 68 ).

 

I numeri del femminicidio in Italia? Dai 16 ai 44 anni, l’omicidio è la prima causa di morte per le donne. Le ricerche criminologiche dimostrano che su 10 femmicidi, mediamente, 7 sono preceduti da altre forme di violenza consumate tra le mura domestiche e nelle relazioni sentimentali.

L’uccisione della donna non è che l’ultimo atto di un continuum di violenza di carattere economico, psicologico o fisico. Quasi sempre, a privarle della vita e’ il compagno, o l’ex fidanzato, o il marito, e il ritmo è di una vittima ogni due-tre giorni, tributando così all’Italia il gradino più alto del podio per la detenzione del triste primato europeo per omicidi intrafamiliari.

L’attuale clima sociale spinge all’esasperazione e la coppia diviene il luogo nel quale si manifesta il lato peggiore di un individuo.

Ma andiamo per ordine.

La parola femminicidio, nata in occasione della strage delle donne di Ciudad Juarez, in Messico, che intende non solo l’uccisione di una donna, ma anche qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte ( in Devoto-Oli, 2009), è tornata in questi mesi tragicamente d’attualità.

Non si tratta solo di una parola in più, per quanto densa di significato, ma anche e soprattutto di un rovesciamento di prospettiva, di una sostanziale trasformazione evolutiva tanto culturale quanto giuridica.

Quasi un paradosso, dopo che il «delitto d’onore» – previsto dall’articolo 587 del Codice penale, […] per un uomo [che uccide] la moglie, se colto da un impeto d’ira determinato dall’offesa recata [sono previste] pene minori rispetto a un analogo delitto di diverso movente, dal momento che l’oltraggio arrecato all’onore è ben più grave rispetto al delitto riparatore – è stato abrogato dalla nostra legislatura con la Legge n. 442 del 5 agosto 1981, a seguito delle lunghe battaglie per l’uguaglianza tra i generi sessuali e le pari opportunità, e dopo la presa di coscienza e la conquista dei propri diritti di donne.

Si va dunque, spesso, alla ricerca della giustificazione psicologica della violenza, e appellandosi a teorie psicologiche cliniche che ne spiegano il comportamento patologico: si parla della vittima nei termini di persona fragile, con personalità dipendenti e soprattutto segnate da esperienze infantili di genitori (padri) assenti o svalutanti che tendono ad attaccare fisicamente o verbalmente la madre, donna necessariamente devota alla famiglia al punto tale da annullarsi e costretta ad incarnare tutta una serie di “virtù femminili” come l’obbedienza, il silenzio, la fedeltà.

L’assistere, inermi, per anni agli attacchi del carnefice, che è pur il loro padre, che già lascia cicatrici indelebili finirebbe per condurre le donne verso persone che più di altre possono riattivare una coazione a ripetere, privandole della capacità di discernere tra rapporti d’amore sano da ciò che dell’amore non ha nulla.

L’imprinting sarebbe più forte della volontà di cambiamento e gli arcaici stereotipi di famiglie patriarcali farebbero il resto, innescando ineluttabili movimenti di adesione a richieste irragionevoli e sottomettendo la donna ai ricatti emotivi attuati dal compagno.

Del carnefice, generalmente, si fornisce l’identikit di un ‘uomo della porta accanto’, senza profili psicologici rilevanti, non noto per precedenti alle forze dell’ordine, probabilmente per la tendenza a lasciar correre e ai silenzi legati mancate denunce.

Spesso anche per gli aggressori si fa risalire l’attitudine alla violenza all’aver assistito a guerriglie familiari; bambini dall’attaccamento incerto e insicuro nei confronti della figura materna che per controbilanciare agli eventi dolorosi diventano uomini deboli o che hanno imparato, che per essere maschi, devono seguire l’unico modello che, purtroppo, hanno avuto come riferimento, ed essere loro malgrado, volgari, aggressivi, violenti.

Oggi sappiamo, che se in alcuni casi le esperienze traumatiche lasciano strascichi di rabbia che sfociano in atti violenti, in molti altri casi poco importa il contesto sociale, la mentalità maschilista ha certo la sua parte di responsabilità ma la violenza sulle donne non fa distinzione per estrazione sociale o livello culturale.

Nell’uomo che uccide, solo attraverso la violenza si sventa la minaccia per la frustrazione della perdita dell’oggetto-donna, la paura di essere abbandonati, o di perdere quote di potere e si incarna “il declino dell’impero patriarcale” quando per salvaguardare la propria virilità si nega all’altro la possibilità di esistere (H. Arendt).

Sotto l’etichetta di delitti passionali c’è probabilmente molto di più: esclusi i raptus di follia questi vengono descritti come omicidi premeditati e lucidi, in cui spesso le vittime vengono prima torturate psicologicamente e poi massacrate con efferatezza. In questi delitti non c’e’ amore, Amore degno di tale nome, ma un cocktail di demoni di odio e follia.

Il Femminicidio indica, dunque, la violenza fisica, psicologica, economica, istituzionale, rivolta contro la donna “in quanto donna”, perché non rispetta il ruolo sociale impostole. Il percorso di riconoscimento del femminicidio come crimine contro l’umanità, finalmente preso in considerazione anche a livello europeo, assume una valenza mondiale e consente di individuare il fil-rouge che segna, a livello internazionale, la matrice comune di ogni forma di violenza e discriminazione contro il genere femminile, ovvero per dirla con le parole di Spinelli la mancata considerazione della dignità delle donne come persone.

Opinabile pensare che si tratta di un termine che racchiude la somma di una serie di azioni ignobili, già tutte denominate e per le quali sono state previste adeguate pene e sanzioni; ma l’aspetto concettuale peculiare e nuovo proposto da questo lemma, condanna la concezione condivisa della “femmina” come priva di qualsiasi dignità umana o sociale, un essere inferiore e degno di sottomissione, impossibilitato ad esprimere liberamente anche soltanto il suo pensiero.

Gli omicidi perpetuati ai danni di persone appartenenti al genere sessuale “sbagliato” trovano profondi radicamenti in una cultura misogina e retrograda incapace di rinnovarsi e in istituzioni che ancora la rispecchiano almeno in parte.

Violenza che passa anche attraverso il silenzio, silenzio imbarazzante dei nostri deputati, già molto in ritardo sul piano delle riforme rispetto alla media europea, colpevoli di aver lasciato i banchi vuoti nel giorno in cui ha avuto inizio la discussione generale sulla ratifica della Convenzione di Istanbul nell’aula di Montecitorio, carta straccia o “scatola vuota” se non seguiranno provvedimenti per la messa in atto della ratifica stessa e l’approvazione da parte di tutti gli altri Stati firmatari.

Non rispettare i diritti delle donne mina lo sviluppo dell’intera umanità. È necessario porre le basi per la costruzione di relazioni sociali diverse, incentrate sull’individuo in quanto tale e sul reciproco rispetto dell’essere vivente prescindendo dalle varie forme di diversità etnica, posizione giuridica o ideologica e ancor più da diversità sessuale.

Che questi assassinii siano frutto della cultura del nostro tempo è innegabile, ma il tema, ogni volta che viene posto, crea schieramenti di genere che impediscono di affrontare un problema che riguarda tutti indistintamente, sia maschi che femmine e ancora una volta la violenza nel e al dialogo fa il gioco di chi vuol asservire, assoggettare e soggiacere un elemento sociale, qualsiasi esso sia

Marialaura Toscano

La dott.ssa Marialaura Toscano è una psicologa clinica iscritta all’ordine degli Psicologi Regione Campania con numero 3991.

Dopo la laurea in Psicologia conseguita presso l’Università Federico II di Napoli, si è formata come psicoterapeuta presso l’Iter – Istituto Terapeutico Romano, (riconosciuto dal MIUR Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ai sensi art. 3 legge n. 56/89).

Esperienza Professionale
Oltre alla attività privata condotta presso il suo studio, collabora in una Scuola offrendo consulenze psicologiche individuali e conducendo interventi di prevenzione.          

Esperta in Scienze Psicologiche ed Analisi Delle Condotte Criminali e in Psicodiagnosi,  è Perito Psicologo (CTU) per conto del Tribunale di Nola.                                                              

Ha inoltre lavorato in diversi centri di riabilitazione prevalentemente con minori affetti da ritardo mentale, ed Associazioni Onlus nel campo delle adozioni, nazionali ed internazionali, svolgendo indagini psicosociali per le coppie che si dichiarano disponibili ad una adozione e, attivando percorsi di informazione e di formazione di gruppo, di sostegno alla genitorialità nella fase pre e post-adozione.

 

studio “Il Ponte Roma

Via Nomentana Nuova n°25, 00141, Roma

Telefono 3938284688
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