Al tavolo con lei anche Nino Letizia, Maryse Miragliotta e Donatella Ingrillì che ha magistralmente interpretato alcune poesie e Lucia Di Fazio che ha introdotto il pomeriggio letterario.
Il libro, splendido, è corredato da foto di Domenico Turrisi ed ieri è stato prezioso il contributo del chitarrista Maurizio Ferralotto con gli intermezzi musicali (Leo Brower estudios sencillos n.5, n.6,n.8, n.4,n.1- Francisco Tarrega: recuerdos de la alhambra).
Introducendo “Danze di mare….” Lucia Di Fazio ieri ha detto:
Prima di esprimere qualche considerazione in merito alla raccolta di poesie di Lucia Ferrara – Danza del mare nell’aria deserta d’autunno – mi sembra opportuna una riflessione preliminare. La poesia lirica – e non solo quella dell’autrice di questo libro – non deve essere intesa come descrizione o rappresentazione di una realtà, ma come l’apertura di un orizzonte; nel nostro caso come l’apertura di un orizzonte spirituale, di un orizzonte dell’anima.
L’intento poetico di Lucia Ferrara, a mio parere, è, pertanto, quello di dischiudere le porte dell’io più segreto, e per questo più intimo, e di farlo mediante l’arte della parola. Perché solo la parola consente di entrare, di penetrare in quell’universo mobile e sconfinato che è appunto la psiche.
La poesia è l’arte che svela il mondo dell’inconscio, oltre che quello della coscienza, nella misura in cui essa non è un oggetto o un contenuto, ma lo strumento mediante il quale l’autore ci parla, ci comunica qualcosa, ci fa accostare all’orizzonte che essa spalanca. Interpretare le poesie significa, dunque, individuare e approfondire le direzioni di significato che ci offre quello che l’autore scrive.
Nella poesia tradizionale questa difficoltà si avvertiva poco.
Si leggeva il pensiero di un poeta o si catturavano le suggestioni e le impressioni che egli manifestava, perché non veniva mai meno la chiarezza della razionalità. Adesso, invece, non è così.
Leggere non è capire necessariamente. Leggere vuol dire andare alla ricerca di qualcosa che sfugge, cercare di fermare un magma che scorre ininterrottamente, trovare una strada per non smarrirsi nei meandri che le parole aprono.
Il titolo che l’autrice ha dato alla raccolta – Danza del mare nell’aria deserta d’autunno – mi ha riportato col pensiero a certe giornate di fine estate in cui il mare si accende di tonalità di azzurro dimenticate nei mesi caldi, una leggera brezza increspa la superficie delle acque o il vento solleva delle onde.
Perché la sensazione che si prova – leggendo le liriche – è quella di guardare, contemplare incantati quel mare, di respirare quell’aria frizzante, di lasciarsi cullare dal suono delle parole.
Ma per capire gli stati d’animo che Lucia Ferrara veicola mediante i suoi versi non è sufficiente rimanere a galla, in superficie. Occorre scendere in profondità, andare oltre le parole e il loro significato corrente.
Lucia Ferrara fa uso di espressioni incisive e graffianti; privilegia aggettivi e vocaboli presi in prestito da altri campi semantici o inediti o poco usuali.
In una delle prime liriche, per esempio, scrive:
Non sono legata a nulla
né al mio passato fantasma in catene
né al mio presente momento sfiorato dal cuore
né al futuro brama d’angoscia
In questi versi emerge il tentativo dell’Io di liberarsi, di svincolarsi da tutto quello che lo lega al corpo e a tutto quello che appartiene alla quotidiana esistenza: le memorie, non sempre piacevoli, l’attimo presente che rivela la sua precarietà, ma che appartiene anche alla speranza o all’attesa che si rivelerebbe piena di ansia.
Il sentimento della solitudine è simile a un pungolo che rode e consuma, che inchioda e fa soffrire.
“Per colmare solitudini di vuoti grotteschi”, all’autrice necessita scrivere, scrivere con il desiderio di sempre. Il sentimento della solitudine è il sentimento dominante in questa raccolta di liriche, il tema su cui la Ferrara torna ripetutamente e circolarmente. E non a caso.
“Lasciatemi la mia solitudine”, infatti, è il titolo di una delle opere più significative e interessanti, perché focalizza, con originalità di linguaggio poetico, questo male che consuma: un male che troviamo celebrato e diffuso in tutta l’arte del Novecento, da Montale a Saba a Garcia Lorca.
Ne leggo la parte fondamentale:
Lasciate in me la banalità
di un sole spento
tra le case marine
e che io possa camminare
negli incanti del giorno
con la bruma strappata dalle finestre
senza traccia del buio.
Accarezzata dal demone
della follia
socchiudo la notte
tra le meraviglie del vento
e con il dissolversi della ragione
mi rallegro d’esser trascinata
dai gorghi dell’illusione
veleno dei cuori senza pace…
La poesia, di conseguenza, diventa medicina, rimedio, balsamo: la poesia ci rende bambini e ci fa guardare il mondo con lo stupore e lo sguardo incantato dei bambini.
In “Sguardo d’attimi”, infatti, l’autrice scrive:
E niente posso
al di là di una poesia
fingemente bugiarda
raccontarti.
Il mondo che ci circonda e ci avvolge appare agli occhi di Lucia Ferrara un grande mistero dinnanzi al quale lei resta
sogno tra gli oggetti
di una bambina lontana
nell’oscurità delle stagioni
Ma lei resta ancora più fragile di fronte al tedio che recano con sé certe grigie giornate vuote di luce, di calore, di energia vitale, come si può verificare là dove la Ferrara scrive:
Nel fango piovoso
di un autunno si smarriscono
i giochi annoiati del sole
L’autunno, con le sue peculiarità metereologiche e cromatiche, è la stagione dell’anno più somigliante, più vicina e più rispondente agli stati d’animo di Lucia Ferrara. Quando lentamente l’estate comincia a dissolversi dietro le prime nebbie, il cielo, spogliandosi delle tinte sgargianti e delle tonalità eccessive, cede il posto a una luce meno intensa, e per questo meno abbagliante e accecante.
L’autunno, in quanto preludio, anticipazione dell’inverno, coincide con la maturità che segue la giovinezza. Per cui, il succedersi delle stagioni influenza fortemente le emozioni, ne orienta il cammino, ne allenta o rafforza l’intensità.
Non secondario è il tema dell’amore, di quest’esperienza che travolge e che rasserena, che ferisce e che risana, che è quiete e tempesta, paradiso e inferno.
Un giorno strano tra gli equilibri della mia anima
entrasti
accendesti la luce
come in una stanza silente e piena d’ombre
guardandomi
mi sollevasti tra i venti del mare
e poi sulla sabbia un turbinio d’ombre cadde.
Sono qui
Diana cacciatrice per chi non mi conosce
ma tu sai che l’unica selva
nella quale morire sei tu.
E’ una lirica prismatica, in cui l’amore si rivela come una tempesta che infuria, come un lampo che squarcia la notte buia, come una vampa che si accende, come un interruttore che qualcuno preme, per svelare, con l’abbaglio della sua luce, il cerchio di un orizzonte infinito.
Ed è in quell’orizzonte che la dea Artemide si manifesta col suo arco infallibile, sotto le frecce del quale morire nella selva di quell’amore diventa naturale, come naturale è la morte di un fiore reciso dalla falce.
La nostalgia, poi, è un altro dei fiori che nel giardino dei sentimenti Lucia Ferrara coltiva con assiduità: la nostalgia come rimpianto, la nostalgia come ritorno nei luoghi della memoria o in quelli che lei chiama “i giorni sprecati all’ombra del sogno”.
Nostalgia è, per l’autrice, quello stare “con il domani inchiodato al passato”; è quel lasciarsi “cadere in gola / la morbida disperazione…” e ogni giorno aspettare “il volto della giovinezza” mentre “crudi abbandoni / spirano sottili sul (mio) viso; è quella coerenza che l’autrice manifesta
scrivendo di cenere e miele
con la luna e la notte
per nuove albe
sazie solo di rime
E ancora a proposito di questo “miele” che è la nostalgia, vale la pena citare un altro frammento lirico, contestualizzato nel territorio delle sue indagini all’interno della psiche più profonda:
Rapide ombre
germinano
nella pioggia falciata
dal vento degli anni
e vuotata dal ricordo di te
bevo.
La poesia di Ferrara si ispira, anche e non poco, ai paesaggi della Sicilia, di una Sicilia che lei non descrive, non dipinge, non disegna, ma che rappresenta in filigrana, che raffigura come una terra dell’anima, o meglio, come specchio dell’anima, in cui si riflettono emozioni, ricordi, rimpianti, memorie.
Ci sono, nei suoi paesaggi, “il tramescolio del mare”, “le chiazze di indaco”, “le ombre della sera”, “i cieli carichi di pioggia”, “la schiuma lenta”, “le falde biascicate dell’ultima luce”. C’è un mare con le sue vele, che racconta, con la maschera della calma – come lei stessa scrive – la sua storia, la sua forza, la profonda potenza che lo anima, che lo rende bello e terribile, amico e signore, fraterno e potente.
Nella solitudine dell’infinito – una delle suggestioni da cui la Ferrara si lascia frequentemente avvolgere – l’autrice proietta le sue assenze di desiderio, immerge la stanchezza delle piccole cose, traccia le curve del divenire, vede l’eclisse delle sue attese, scopre il trasformarsi, in tedio esistenziale, della musica della vita.
Ecco perché il canto dell’anima si fa “canto senza case e senza cieli”. La reazione, la risposta a questo senso di impotenza, è la voglia di annegare nei paesaggi dell’intimità; è quell’anelito alla fuga; è quella indocilità del cuore, quella irrequietezza dell’anima che dobbiamo considerare come voglia di infinito, come brama di verità, come urgenza di quiete, di riposo, di pace.
C’è infine, in tutta l’opera poetica di Lucia Ferrara, il gelo dell’amore, ovvero l’inverno di quella passione che una volta era stata follia, fuoco, esplosione di attrazioni fatali. E c’è pure quell’aggirarsi, quel tuffarsi “tra i miracoli delle lune piene…”, quell’abbandonarsi ai “sovrumani silenzi”, di leopardiana memoria, che colmano, anche se temporaneamente, i momenti di maggiore assenza, di più forte vuoto esistenziale.
C’è, in questa silloge di liriche, quel suo quotidiano silenzioso viaggiare, o vagabondare, verso un punto morto, un punto finito, verso l’approdo; e c’è il nulla o qualcosa che somiglia al nulla, quel nulla che ci assale – anche se momentaneamente – quando pare che la vita si svuoti di contenuti, di motivazioni, di arcobaleni colorati.
Sono quelle sensazioni che invadono le “stanze vuote” del cuore dell’autrice, negli abbandoni ricorrenti di una psiche che ha una sensibilità profonda quanto profondo è il mare, la cui calma
apparente, superficiale, nasconde, ma non esclude, le tempeste abissali che lo sommuovono.
In sintesi,
sono tante ed infinite
le storie di una vita
finita.
come lei stessa confessa in questi versi.
Oggi sono in molti, moltissimi, coloro che scrivono poesie per riversare in esse la piena del proprio intimo; coloro che nella scrittura cercano l’amico, il confidente, l’anima gemella a cui confidarsi ed affidarsi, ma i versi di Lucia Ferrara sono diversi dagli altri, stanno su un piano più elevato, si connotano per un codice poetico scelto, prezioso, raffinato e ormai opportunamente governato da una lunga esperienza e dall’innata vocazione all’arte della poesia.
C’è pure una grammatica ermetica, chiusa, a volte serrata, dalla quale però si sprigionano lampi di felice intuizione lirica. Ci sono scintille che lasciano intravedere quello che giace oltre i confini dell’immaginario e dell’oscuro.
Io ritengo che la Ferrara possieda una sua arte della parola, della parola forte, vigorosa, che si affaccia sull’abisso dell’esistenza scavandola profondamente e continuamente; un’arte che sa dominare e gestire l’universo mobilissimo e sfuggente delle sensazioni psichiche e dello stesso codice linguistico mediante il quale quelle sensazioni trovano forma e corpo nella poesia.
Non resta – a questo punto – che complimentarci con la poetessa e auspicare che questo suo istinto creativo raggiunga traguardi ancora più alti e significativi.
Lucia Di Fazio
Villa Piccolo, 28 agosto 2012