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RACCONTANDO LA GUERRA – Ucraina: una mattina all’alba

Nella notte l’ospedale fu raso al suolo e la vista si allargò pericolosamente sulla città.     

Racconto breve di Enzo Russo…che diventa quasi cronaca 

Appena li videro allontanarsi lungo la strada che costeggia il bosco con gli anfibi ai piedi, con i fucili in mano, i caschetti, le tute mimetiche da combattimento gonfie nel petto per i giubbotti antiproiettile, si affacciarono in strada con molta cautela e uscirono dai loro rifugi per andare a cercare cibo e acqua. Era mattino presto e l’aria era satura di un pulviscolo che da giorni veniva fuori dagli edifici e dalle abitazioni distrutte dall’incessante bombardamento che insisteva sulla città. Da più di una settimana, subito dopo l’alba, una squadra di soldati nemici con molta circospezione e coprendosi l’un l’altro attraversavano le strade principali evitando di addentrarsi nei vicoli per paura di imboscate e del fuoco dei cecchini. Avevano una tecnica di avanzamento che li portava a conquistare nuove posizioni spostandosi molto lentamente. Finita la perlustrazione e fatte delle foto per documentare lo stato delle cose rientravano velocemente verso il loro avamposto, oltre il bosco.

La ragazza era stanca, con il viso segnato da una profonda sofferenza. Era al terzo mese di gravidanza e da giorni avvertiva continue fitte all’addome e un peso insopportabile alle gambe a causa della prolungata immobilità alla quale era costretta. Aveva nausea, vomitava in continuazione e anche bere un semplice bicchiere d’acqua le procurava fastidio. Aspettava quel momento di libertà per respirare un poco d’aria, che pura non poteva più dirsi. Nevicava lentamente: i piccoli fiocchi avvicinandosi al suolo si mischiavano alla polvere e si appesantivano, diventavano appiccicosi e precipitavano rapidamente. C’era uno strano colore nell’aria; anche i tenui raggi solari creavano una luce opaca, tra il grigio e il marrone. Nella notte avevano bombardato il vicino ospedale oncologico dei bambini, già evacuato giorni prima, che ancora resisteva in piedi seppur con il lato rivolto a nord sventrato in più parti.

La ragazza sotto gli occhi della suocera si allontanò a piccoli passi lungo la via grande di quel quartiere posto nella estrema parte nord della sua città, molto vicina al confine con la Bielorussia, provando a muoversi grande fatica. Nel frattempo il suocero cercava di raggiungere la zona del centro storico dove c’era uno dei pochi negozi ancora aperti e dove la donna che lo gestiva, quando era possibile, metteva da parte verdura e frutta per la ragazza. Il giovane marito rimaneva invece sempre nel rifugio, un magazzino sito nel sotterraneo del loro piccolo negozio di alimentari che avevano chiuso dopo aver esaurito tutte le scorte. Il pericolo che lo catturassero e lo inviassero al fronte, anche se non era di leva, era altissimo. In città girava voce che per il momento stessero arruolando tutti i civili volontari dai 18 ai 40 anni: sarebbe poi toccato a tutti gli altri, anche ai non volontari e ai più anziani.

La ragazza camminava alquanto distante dai muri delle case per paura di qualche crollo. I cornicioni di molte costruzioni erano pericolanti e i marciapiedi pieni di calcinacci. Non aveva dove appoggiarsi e il suo procedere era lento e incerto.  La vita di quei giorni nel rifugio improvvisato era un incubo per lei: erano in troppi e non riusciva a riposare neanche pochi minuti. Due intere famiglie di vicini con dei bimbi piccoli alquanto movimentati avevano da subito chiesto di ospitarli, gli adulti bevevano in continuazione ascoltando notizie alla radio e commentando con rabbia e così si veniva a creare un unico rumore di fondo presente 24 ore al giorno; inoltre durante la notte, quando i bombardamenti si facevano più intensi, si aggiungevano lamenti, grida di terrore, preghiere e imprecazioni. Anche i cani erano con loro, povere bestie, i soli a stare in silenzio, accucciati e terrorizzati dal frastuono dei razzi. L’unica stanza della fredda cantina era illuminata da una luce fioca, che spesso veniva a mancare, e da piccole lampadine poste nel corridoio trovate tra gli addobbi di natale. Il bagno era minuscolo e cercavano di fare di tutto per tenerlo pulito anche se l’acqua gelata veniva erogata solo poche ore al giorno: quando era possibile riempivano dei secchi e vari contenitori per usarli per la tazza, mentre per lavarsi ne dovevano riscaldarne almeno un po’. L’odore di chiuso e l’aria stantia facevano il resto.

La ragazza giunse in fondo alla strada e girato l’angolo, all’improvviso, li vide uscire direttamente dal bosco e rimase impietrita. Procedevano guardando ai lati con circospezione, erano solo dei ragazzi giovanissimi, sembravano appena diciottenni.

I loro occhi erano pieni di paura ma al contempo amichevoli. Accadde una cosa davvero strana: quello che li guidava fece un cenno e li fermò, diede ordine di posare i fucili sotto un albero e lasciò due di loro a far da guardia. Dietro la ragazza c’era altra gente per strada che, increduli, rimasero a guardare sempre con il terrore nei loro visi. Il manipolo di giovani avanzò a rilento e il loro capo si avvicinò alla ragazza. Si fermò a pochi passi e si guardarono un attimo: un breve tempo che a lei fu sufficiente per percepire tutto lo sconforto, lo smarrimento, l’angoscia che esprimeva lo sguardo triste del soldato. “Non temere”, disse il ragazzo, “non vogliamo fare male a nessuno. Non so ancora cosa ci faccio qui, non pensavo mai di dovere venire a combattere il mio stesso popolo, nessuno di noi lo comprende. Abbiamo abbandonato le nostre case, le nostre famiglie, la scuola, il lavoro, senza sapere il perché. Stai tranquilla non faremo male a nessuno, dobbiamo solo prendere con precisione delle coordinate. Bisogna abbattere l’ospedale perché è da ostacolo e dalla nostra posizione non si riesce a vedere oltre. Dobbiamo farlo. State lontani da quel posto, dillo a tutti.” Parlando la guardava diritto negli occhi. La ragazza chiese: “Come ti chiami, da dove vieni?”. Lui disse il suo nome per intero e quello della sua città, lontanissima, a sud-ovest della Russia. “Dimmi di te”, aggiunse infine.

“Dimmi di te”

La ragazza rispose che aspettava un bambino e stava facendo una passeggiata perché da giorni era immobile in un rifugio a causa loro, della loro invasione. Gli disse che la sua città era semidistrutta così come lo era la loro vita, i loro sogni, le loro speranze, il loro futuro. Parlava con calma mentre lacrime che non poteva fermare bagnavano il suo volto, ma non se ne vergognava. Il ragazzo rimase in silenzio, turbato e perso in un vuoto di emozioni. Poco dopo con gli occhi che gli luccicavano le parlò ancora: “Siamo fratelli, accomunati dallo stesso destino e nulla potrà cancellare questo”. Le raccontò di come molti dei suoi compagni fossero stati uccisi e di come, senza poterli almeno seppellire, li avessero dovuti abbandonare lì dove erano stati colpiti. Non avevano documenti perché gli erano stati tolti per paura di fughe o di ritorsioni e non avevano i telefonini per non far comunicare loro con le proprie famiglie e mettere così a nudo la verità su quella assurda guerra. “Rientra con noi, ti lasciamo a casa tua se vuoi”, concluse preoccupato. Lei preferì rimanere da sola.

prenditi cura del tuo bambino

Il ragazzo avvicinandosi le disse: “Spero che vada tutto bene per te e la tua famiglia, prenditi cura del tuo bambino; vedrai che tutto finirà presto, nessuno di noi vuole questa maledetta guerra”. Stava per allontanarsi quando tornò indietro, le tese la mano e stringendo quella di lei aggiunse: “Potreste anche passare sul nostro corpo in questo momento per andare via, noi non vi fermeremmo, non useremmo mai le armi per farlo”. E la lasciò. Il viso della ragazza si addolcì. In un attimo percepì il vero dramma di quel conflitto, con le sue diversità, le sue contraddizioni, la disperazione e il dolore che si portava appresso e che colpiva tutti indistintamente.

I soldati si mossero svelti. Li videro arrivare all’ospedale, segnare dei punti, assicurarsi che l’edificio fosse vuoto e libero. Avvertirono anche altra gente di tenersi lontano da quel posto. Tornarono rapidi da dove erano venuti, raccolsero i fucili, si addentrarono nel bosco e sparirono. Non rividero mai più quel manipolo di ragazzi dallo sguardo malinconico: si disse che alcuni di loro avevano disertato quella guerra fratricida.

Nella notte l’ospedale fu raso al suolo e la vista si allargò pericolosamente sulla città.

l’Autore

Enzo Russo (Patti, 1959) è laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Medicina Nucleare; è il responsabile dei Servizi di Prevenzione, Diagnosi e Cura della Osteoporosi e delle Malattie Metaboliche dello Scheletro presso strutture sanitarie a Capo D’Orlando, Patti e Milazzo.

Nel 2016 ha pubblicato il suo primo romanzo “Soltanto tre cose”, Pungitopo Editore.

Nel mese di Maggio 2021 si è classificato al terzo posto nella sezione Narrativa Inedita del Premio Letterario Internazionale Rocco Carbone – Leonida Edizioni con il suo secondo romanzo “Il sentiero che porta in alto” e nel successivo mese di Agosto con lo stesso romanzo si è classificato al primo posto della sezione Narrativa del premio Nazionale Stella & Aratro “Memorial Ignazio Spanò”: il romanzo sarà pubblicato nel mese di Maggio 2022.

Nel Dicembre 2021 ha pubblicato sulla rivista online “Scomunicando”, in tre puntate, il racconto “Il libro Nero” che è stato successivamente selezionato dal Premio Giorgio Edizioni per essere pubblicato, in attesa della premiazione finale.

Redazione Scomunicando.it

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