Tutto cominciò con il comitato centrale del Midas che lo elesse segretario e finì con Tangentopoli
L’era di Craxi: in 16 anni dagli altari alla polvere La battaglia per l’egemonia a sinistra:le vittorie,
le sconfitte e la rovina di un politico di razza
E’ durata più di 16 anni l’era Craxi: dal luglio del 1976, quando al comitato centrale riunito all’Hotel Midas spodestò Antonio De Martino dalla segreteria del Psi, al febbraio 1993, quando dovette cedere la mano sotto l’impeto delle inchieste su Tangentopoli.
Anni cruciali nella vita del Paese, che iniziarono con il Pci al suo massimo storico, mentre il Psi era sull’orlo dell’estinzione; che rappresentarono il culmine dell’attacco terroristico al cuore dello Stato; che affidarono all’Italia un ruolo essenziale nell’ultima spallata all’Unione Sovietica, con il dispiegamento dei missili Cruise a Comiso.
Ma sono stati anche gli anni che diedero per la prima volta un socialista alla guida del governo, che videro il premier italiano reagire contro un alleato storico come gli Usa. Gli anni della P2, ma anche dell’offensiva dello Stato contro i poteri criminali, a cominciare da Cosa Nostra, dopo decenni di colpevole tolleranza. Craxi di quella lunga stagione è stato l’emblema, pagando il prezzo più alto quando è rovinosamente terminata.
Uomo “totus politicus”, Craxi fece da ragazzo, negli anni ’50, quella che Amendola chiamava una scelta di vita”. Anni durissimi per chi stava a sinistra, ma forse ancor di più per chi, come lui, a sinistra era considerato un destro.
Nenniano, entrò nel comitato centrale del partito al Congresso di Venezia, nel ’57, che vide il leader storico del socialismo italiano sonoramente battuto dai morandiani coalizzati con i bassiani e la sinistra di Sandro Pertini. Aveva 23 anni (essendo nato a Milano il 24 febbraio del ’34).
Nel ’68, Craxi venne eletto per la prima volta deputato, ed entrò nella segreteria nazionale del Psi, come uno dei vice segretari prima di Giacomo Mancini e poi di Francesco De Martino. In quegli anni, per conto del partito, iniziò un’intensa attività di politica estera, soprattutto nei confronti dei partiti fratelli aderenti all’Internazionale socialista. Nacque così una passione che non si appannò più.
Nel 1976, eletto segretario del partito in seguito ad una sorta di congiura di palazzo ai danni di De Martino, la sua sembrò la classica soluzione di transizione. Non era forte nel partito, e i leader socialisti più importanti pensarono a torto di poterlo levare di mezzo alla prima occasione. Il Pci sembrava in un’ascesa inarrestabile. Molti pensavano che il Psi non avesse più ragione d’esistere. “Primum vivere” fu il suo orgoglioso slogan. E cominciò la battaglia per svecchiareil partito e per l’egemonia a sinistra.
Il comunista Enrico Berlinguer aveva lanciato il “compromesso storico”? E lui al congresso di Torino, alleato con il lombardiano Claudio Signorile, replicò con la strategia dell’alternativa. Durante i tremendi 55 giorni di Moro, la Dc e il Pci si attestavano sulla linea della “fermezza”? Il Psi divenne l’alfiere della linea trattativista. E fu sempre nel ’78 che il Psi riusci’ a mandare per la prima volta un suo uomo al Quirinale: Sandro Pertini.
E anche il partito fu rivoltato come un calzino, seguendo una stella polare: svecchiare il socialismo italiano, e riscattare il Psi da una sudditanza culturale e ideologica nei confronti del “grande partito comunista italiano”, come si diceva in quegli anni. E fu infatti nel ’78 che Craxi avvio’ una feroce polemica ideologica con il Pci. Berlinguer operava il suo “strappo” dall’Urss e dalla tradizone comunista ortodossa proponendo una terza via, e Craxi gli rispose duro buttando a mare non solo Lenin, ma anche Marx, ed esaltando il pensiero di Pierre Joseph Proudon. Riuscì a far cambiare anche il vecchio simbolo del suo partito (falce e martello su libro e sole nascente) con un garofano rosso.
Al congresso di Verona (1984), che si ricorda anche per la salve di fischi che accolse Berlinguer un paio di settimane prima della sua morte (anni dopo, Craxi, non facile alle autocritiche, disse di essersi pentito per quell’episodio), era già presidente del Consiglio da un anno. Ciò era stato possibile per la sconfitta subita dalla Dc nelle elezioni dell’83. La Borsa perse l’8,6 per cento per un risultato dello Scudo Crociato che sembrò tragico: il 32,9% dei voti, 225 deputati e 120 senatori. Il 4 agosto Craxi formò il suo primo governo, e a fargli da braccio destro prese con sè il futuro premier Giuliano Amato.
I problemi non si fecero attendere.
La grana maggiore fu da subito la decisione di accogliere in Italia i Cruise statunitensi.
Ma la prova di forza decisiva per gli equilibri interni fu senza dubbio il referendum dell’85 sui punti di scala mobile promosso dal Pci. Craxi, infatti, non cercò di evitare lo scontro, e vinse quella partita che all’inzio era sembrata senza speranza. A Settembre dovette affrontare la più grave crisi diplomatica della sua carriera, quando ordinò di impedire ai marines americani di ripartire da Sigonella, in Sicilia, con i terroristi palestinesi, tra i quali Abu Abbas, responsabili del sequestro dell’Achille Lauro.
Craxi rimase a Palazzo Chigi fino al 17 aprile ’87, conquistando un record: la permanenza alla guida del governo più lunga della storia dell’Italia repubblicana. Tornato al partito, Craxi riprese di lena la sua politica: contendere alla Dc il suo primato, e rilanciare l’offensiva contro il Pci per creare un solo grande partito socialdemocratico.
Nel biennio ’89-’90 gli sembrò essere venuto il momento della definitiva rivincita socialista in Italia. Craxi andò a vedere con i suoi occhi a Berlino sgretolarsi quel muro che aveva diviso in due l’Europa, e si tolse la soddisfazione di dargli anche lui due bei colpi con martello e scalpello. E volle poi seguire di persona il XX congresso del Pci di Rimini, e si vedeva con quanto interesse assistesse alla nascita del nuovo partito voluto da Occhetto, il Pds.
E’ in questa cornice che Craxi lanciò la parola d’ordine dell'”Unità socialista”. Nel febbraio ’89 aveva già assorbito nel Psi una componente dello Psdi, e mai come nei tumultuosi mesi che seguirono a Craxi dovette sembrare più vicino l’obiettivo di una grande sinistra europea. Per questo, se si deve ora indicare una data del primo scricchiolio, forse è bene partire da prima dell’inizio di Tangentopoli.
Fu alla conferenza stampa del 7 novembre 1990, convocata da Craxi per ribadire che lui dell’esistenza di Gladio non aveva in effetti mai saputo nulla, che i giornalisti ebbero l’impressione di non trovarsi più di fronte il solito “Bokassa” (questo il nomignolo con cui lo chiamavano dentro e fuori il partito). Apparve già come un leader sulla difensiva. Tutto ciò avveniva ben prima di quel 17 febbraio 1992, quando venne arrestato Mario Chiesa, il socialista presidente del Pio Albergo Trivulzio, che diede il via a Mani Pulite.
Tra le due date, ci fu quello che lui stesso poi riconobbe come un errore politico: l’aver invitato gli italiani ad andare al mare e a non votare per il referendum di Mario Segni sulla preferenza unica. Arrestato Chiesa, Craxi pensò di poter archiviare tutto con un epiteto: “Mariuolo”. Ma l’indagine di Tangentopoli non si sarebbe arrestata al primo nome.
Iniziò il declino, sotto i colpi degli avvisi di garanzia, ma ci volle un anno prima che il vecchio leone decidesse di gettare la spugna e lasciare la guida del partito. Un processo che si accompagnò al disgregarsi del gruppo dirigente, con Claudio Martelli sicuro di poter salvare il partito contrapponendosi a Craxi, e con quest’ultimo determinato a non far finire il bastone di comando nelle mani dell’ex delfino, che infatti fu poi preso da Giorgio Benvenuto.
Subito dopo Craxi si preoccupò di sottrarsi alla magistratura, ai suoi occhi impegnata in un’offensiva politica, in una “falsa rivoluzione”. A convincerlo dovette certo contribuire la manifestazione davanti all’Hotel Raphael, che lo costrinse ad allontanarsi in gran fretta sotto un fitto lancio di monetine. Si era tolto la soddisfazione di ottenere un No del Parlamento, dopo un appassionato discorso alla Camera, ad una richiesta di autorizzazione dei pm di Milano. Ma la via dell’ “esilio” gli dovette apparire come l’unica soluzione. E si rifugiò ad Hammamet, sempre più malato di quel diabete che già nel ’90 aveva fatto temere per la sua vita. E da lì ha proseguito la sua battaglia fino all’ultimo a colpi di fax, chiedendo continuamente che si cercasse la verità sul finanziamento illecito dei partiti, rifiutandosi di passare alla storia, lui che aveva dedicato la vita alla causa del socialismo, come il capo di una banda di criminali.
(La Repubblica 19 gennaio 2000)
veva visto più lontano di altri
ma mancava di senso della misura
Un leader di razza tradito da se stesso “Ti farò vedere cosa si può fare col 9 per cento”E si lanciò all’assalto del Pci di Berlinguer
di MIRIAM MAFAI
Succedono cose strane quando muore qualcuno con il quale hai avuto, da giornalista, rapporti frequenti e spesso polemici, qualcuno che hai conosciuto e frequentato, con cui hai discusso, polemizzato, del quale hai raccolto interviste dichiarazioni, talvolta confidenze. E succedono cose ancora più strane quando quel qualcuno è Bettino Craxi, morto improvvisamente ieri sera ad Hammamet, da latitante, condannato da un Tribunale italiano per corruzione e ricettazione. Nella testa di chi lo ha conosciuto si affollano le immagini e, non esito a dirlo, i sentimenti più diversi.
L’ho conosciuto che aveva poco più di trent’anni, consigliere comunale (o forse assessore, non ricordo bene) a Milano, un ragazzone alto massiccio che aveva stampata sulla faccia la voglia e la “felicità” del far politica. Scrivendone, previdi per quel giovanotto milanese un avvenire da leader. L’ho visto, l’ultima volta, come lo videro in televisione milioni di italiani, sulla soglia dell’hotel Raphael, sua residenza romana, fatto oggetto degli insulti della folla che si era radunata davanti all’albergo e del lancio delle monetine al grido di “ladro, ladro”.
Meno di trent’anni dividevano quelle due immagini, trent’anni nel corso dei quali l’uomo politico di razza che era (perché lo era, senza dubbio) aveva raggiunto una serie di successi – primo socialista a entrare a Palazzo Chigi e rimanervi per ben tre anni rompendo la serie dei governi brevi e impotenti cui sembrava destinata la Prima Repubblica – ma aveva mancato il più alto, quello di diventare il Mitterrand italiano, e aveva dissipato per una sorta di cieca avidità, nella certezza o nella illusione della impunità, tutto il suo patrimonio politico.
E lo ricordo ancora al Midas, il brutto albergo sulla Via Aurelia, quando un Psi diviso e rissoso, ridotto a poco più del 9% dei voti ma ricco di personalità di primo piano, decise di affidare i suoi destini a quel quarantenne che aveva costruito la sua carriera all’ombra di Pietro Nenni e che, prudentemente, non aveva nemmeno preso la parola nel corso dei lavori di quel Comitato Centrale. Era il 16 luglio del 1976, nelle stanze e nei corridoio del Midas faceva un caldo soffocante. Qualcuno, sbagliando, pensava che si trattasse di una soluzione provvisoria, di transizione. Lo avevano sottovalutato.
L’uomo è intelligente, ambizioso, spregiudicato. Ha coltivato negli anni ottimi rapporti con i leader socialdemocratici europei. Viene definito “il tedesco” non solo per la sua capacità di lavoro e per i suoi legami con la socialdemocrazia tedesca, ma anche e forse soprattutto per la durezza del temperamento. Sulla stampa viene presentato subito come “il tedesco del Psi che non ama il Pci”.
E’ vero, Bettino Craxi non ama i comunisti, che nelle elezioni del 20 giugno 76 hanno raggiunto il 33% dei voti, ma, soprattutto – è questo il suo tratto caratteristico – non ha nessuna soggezione politica o culturale nei loro confronti. A un intervistatore (è Fausto De Luca della Repubblica) che gli chiede: “A lei fa paura il Pci?”, risponde: “Mi fa paura il comunismo, non il Pci”. E prosegue: “I giovani hanno avuto il Vietnam come grande esperienza, la mia generazione si è invece formata sotto il trauma dell’Ungheria”.
Primum vivere: questo l’obiettivo del nuovo segretario del Psi. E anche soltanto vivere, o sopravvivere, per un partito socialista ridotto al suo minimo storico non è facile stretto come si trova tra i due partiti maggiori, il Pci (quello che Bobbio definirà in quei giorni il “terribile cugino”) e la Dc, che insieme, con circa il 75% dei voti, stanno avanzando sulla strada del “compromesso storico”. Primum vivere, e dunque stare nell’alleanza di governo (anche il Psi si asterrà sul governo Andreotti) ma insieme prendere le distanze dai comunisti. Nel Transatlantico di Montecitorio che il neosegretario socialista frequentava allora volentieri (solo più tardi comincerà a definirlo un suk e a definire i giornalisti “raccoglitori di cicche”) Bettino Craxi in quei convulsi giorni del 1976 mi prese da parte, mi confidò alcuni dei suoi progetti (“Cambiare, cambiare, è ora di portare gente giovane in tutti i posti di comando del partito”) per poi concludere: “Ti farò vedere io cosa si può fare anche soltanto con il 9% dei voti”. E, in effetti, ce lo fece vedere.
Quel 9% dei voti, una miseria, doveva servire a “sparigliare”. Nei confronti della Dc di Moro (che non amava ed anzi disprezzava l’alleato socialista) e nei confronti del Pci di Enrico Berlinguer. Dal segretario del Pci, ideatore del “compromesso storico” lo divideva tutto. Erano due figure opposte, per temperamento stile cultura, persino per struttura fisica: fragile e quasi timido l’uno, aggressivo e corpulento l’altro, severo nei costumi e nei comportamenti l’uno, amante delle donne e della buona cucina l’altro. Avevano in comune un solo vizio, il fumo, che gli aveva reso giallastri i polpastrelli e le unghie. Berlinguer era un accanito fumatore di Turmac, Craxi preferiva (o gli avevano consigliato) delle sottili sigarette alla menta.
Cominciò a sparigliare subito, nel 1978 quando di fronte a un Pci impegnato nella “linea della fermezza” e quindi nel rifiuto di ogni trattativa con le Br che avevano rapito Moro, sostenne la linea della ricerca di una “soluzione umanitaria”. E continuò a “sparigliare”, sempre. In pochi anni Berlinguer e Craxi bruciarono, anche in virtù dei diversi caratteri e della reciproca diffidenza, ogni possibile occasione di incontro o anche soltanto di azione comune.
Così quando Berlinguer privilegiava, nella prospettiva del “compromesso storico”, l’accordo con la Dc, Bettino Craxi rilanciava dal congresso di Torino un progetto, sia pure confuso, per l’alternativa di sinistra. E quando Berlinguer, nel 1980 avanzerà l’ipotesi dell’alternativa, Bettino Craxi sarà già su un’altra lontanissima sponda.
Il Psi aveva sempre soltanto il 10% dei consensi. Ma di quel partito Bettino Craxi non è più il segretario, ma il padrone assoluto, il fuhrer, come commenterà amareggiato Riccardo Lombardi. Viene incoronato padrone assoluto al congresso di Palermo, più simile ad una “convention” americana che a un tradizionale congresso di partito, mentre centinaia di belle ragazze distribuiscono tra la platea dei delegati e per le strade della città, i garofani arrivati, a decine di migliaia, con un treno speciale.
Bettino Craxi ha capito tutto, in anticipo. Ma la sua dismisura lo porterà alla rovina. Ha capito che un partito moderno ha bisogno di una direzione monocratica, di un leader, in grado di muoversi sulla scena politica con assoluta libertà; ha capito che, più che il radicamento sociale, è importante il controllo del sistema dei media (di qui il suo legame con Berlusconi); ha capito infine che tra tutti i mezzi per l’azione politica, la priorità va assegnata alla risorsa finanziaria. Il vecchio Nenni, quando era diventato vicepresidente nel governo di centro sinistra, aveva invano cercato a Palazzo Chigi “la stanza dei bottoni”.
Il suo discepolo, Bettino Craxi, capì che i veri bottoni da schiacciare erano quelli della cassaforte. Un finissimo storico socialista, Luciano Cafagna, ha scritto che Ghino di Tacco (secondo la felice definizione di Eugenio Scalfari), per poter taglieggiare gli alleati, per poter fare il ricattatore di professione, aveva bisogno di assoluta autonomia anche sul piano finanziario. Di qui la sua passione, la sua spregiudicatezza negli affari.
Anzi, scrive Cafagna, si poteva fare di più: “e, attraverso un disegno diabolico, collocarsi come un ragno, al centro della tela del finanziamento politico, ampliandola a proprio favore più rapidamente degli altri, in modo da farsene addirittura regista e redistributore. E diventare così definitivamente centrale, indispensabile, arbitro”.
Per una drammatica ironia della storia, questo sembra l’unico vero disegno portato a compimento dal leader socialista che pure si era proposto obiettivi assai più ambiziosi, quale quello di modernizzare il paese attraverso una Grande Riforma (pur non ben definita) che rendesse possibile una autentica alternativa, che presupponeva però l’esistenza di una grande forza di sinistra socialista.
Ma quando questa occasione, dopo la caduta del Muro di Berlino si presenterà, a lui, che ambiva essere il Mitterrand italiano mancò la necessaria lucidità politica e il coraggio. Accecato dall’arroganza e dall’avidità di potere, preferì scommettere sulla fine del Pci, il “terribile cugino” che stava affrontando il travaglio della fuoruscita dalla sua vecchia storia (e ne sarebbe sia pure faticosamente uscito a prezzo di una profonda lacerazione).
Né si accorse, Bettino Craxi, della valanga che si stava abbattendo sul suo partito. E quando Mario Chiesa venne arrestato, a Milano, con le tangenti ancora in tasca, pensò di poter liquidare la vicenda, definendo lo stesso Chiesa da “mariuolo”.
Era il febbraio del 1992. E Craxi si illudeva ancora – singolare cecità – di poter definire i futuri assetti del paese, spartendosi con Andreotti il Quirinale e Palazzo Chigi. Poco dopo, doveva affrontare l’ umiliazione del lancio di monetine davanti al Raphael, e poi la incriminazione e la condanna. Aver trovato e largamente usato i bottoni della cassaforte provocava il suo suicidio politico.
(20 gennaio 2000)
Gad Lerner su Bttino Craxi
Leggo lo sfogo disperato della figlia Stefania: “Lo hanno ammazzato”. La rispetto e la comprendo. Ma non posso darle ragione. Bettino Craxi muore vittima al tempo stesso del suo titanismo e dell’ipocrisia nazionale.
Non è solo doloroso, ma è anche una sconfitta della Repubblica, che un uomo come lui -indubbiamente uno statista di prima grandezza, un socialista che aveva ragione nella sua polemica riformista con il Pci- si sia spento in terra d’Africa lasciando aperta la contraddizione di cui egli stesso si era proposto come simbolo. Ma nessuno Stato democratico avrebbe potuto accettare la sua pretesa di porsi al di sopra e al di fuori della Legge.
La sua grandezza tragica è tutta in quella scelta di caricarsi sulle spalle la responsabilità del finanziamento illegale della politica, quasi si trattasse di un dettaglio marginale rispetto ai meriti della sua leadership, rifiutandosi di vedere come la corruzione fosse nel frattempo divenuta un’insopportabile emergenza nazionale.
Il suo riformismo anticomunista degenerò così nell’indifferenza alle regole, e infine nella furia per il nuovo corso di Mani pulite. Ma se oggi una destra scatenata contro i giudici può eleggerlo a suo martire, ciò dipende anche dall’incapacità politica di fare i conti con la vicenda simboleggiata da Craxi. La vicenda di un riformismo troppo a lungo emarginato nell’Italia delle grandi chiese; la spirale di Tangentopoli cui non si è data per tempo una soluzione politica.
Non è una storia solo italiana, come dimostra in queste stesse ore il dramma di Kohl. Lo Stato democratico non può far sua l’idea eversiva secondo cui Craxi sarebbe morto in esilio vittima di un complotto.
Ma nello stesso tempo merita rispetto e ammirazione l’orgogliosa tenacia con cui ha combattuto fino all’ultimo.
(19 gennaio 2000)
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