La Regione salva la Tonnara di San Giorgio. Ora bisogna recuperare il salvabile. E’ un patrimonio di tutti.
Come nei suoi poterila Regione ha esercitato il suo diritto di prelazione per l’acquisizione della Tonnara San Giorgio a Gioiosa Marea, che dopo fallimento dell’Immobilare che la voleva trasformare in residence stava per essere acquistata da un’altro gruppo privato.
Ora bisogna recupere quanto più possibile di quell’area che rappresenta la memoria storica di un luogo e che comunque è stato fortemente devastato, compromesso e abbandonato da una classe politica gioiosana che per decenni è stata sorda e cieca, non volendo vedere lo scempio che si compiva.
“In questo modo – dice l’assessore Gaetano Armao – si recupera una nuova perla della collana rappresentata dal circuito delle tonnare siciliane, che vede come capofila la Tonnara di Favignana.”
Quindi si potrebbe aprire un nuovo flusso turistico per un borgo che comunque deve recuperare molto della sua identità.
La Tonnara San Giorgio a Gioiosa Marea la si ritrova negli atti a partire dal 1407 quando re Martino concesse a Berengario Orioles il mare di San Giorgio per il calo della Tonnara.
Da allora tale attività caratterizzò l’attività di questo centro marinaro fino agli inizi degli anni Sessanta, ora restano alcuni brandelli della parte abitativa, dimora degli ultimi proprietari, la famiglia Cumbo.
Dell’assetto originario dei manufatti è rimasto solo l’impianto planimetrico e la volumetria.
Il vecchio edificio, inserito tra i nuovo corpi, si presenta sventrato e in grave stato di degrado.
La Soprintendenza di Messina sottopose a vincolo l’edificio che non si riuscì a distruggere con tutti i beni mobili superstiti (palischermi, galleggianti, ancore di enormidimensioni) che giacciono oggi abbandonati sull’arenile, e molti furono nel tempo asportati e rubati.
Inerzia amministrativa e indifferenza generale hanno portato alla graduale scomparsa di molti reperti che ancora, qualche anno addietro, potevano essere salvati dal lento e inesorabile abbandono cui sono stati sottoposti per decenni.
I resti di due enormi palischermi, che per tempo immemorabile avevano resistito alle più terribili intemperie, sono andati distrutti da un incendio solo qualche anno fa.
Ecco come Giuseppe Alibrandi dal suo “Archeologia delle Tonnare Messinesi” pubblicato dalla Provincia Regionale di Messina – Assessorato alla Cultura – parla della tonnara di San Giorgio
FRANCESCO CARLO D’AMICO AUTORE DELLE “OSSERVAZIONI PRATICHE INTORNO LA PESCA, CORSO E CAMMINO DEl TONNI
Testi del Prof . Giuseppe Alibrandi
Don F. Carlo D’Amico al titolo di duca d’Ossada preferiva quello di barone di San Giorgio. Quello d’Ossada era un titolo semplicemente onorario: una duca senza feudo e castello, senza saline giardini e torri, un cognome ideale. Il titolo di barone invece poggiava su terre tonnare e castello di San Giorgio.
“Barones constituimus” recitava la formula dell’antico rescritto regio degli Aragonesi: su feudi e castelli, in qualità di “tenentis et possidentis”. Suo nonno F. Carlo D’Amico n’era stato l’ultimo investito e sulle dimore patrizie di Milazzo e San Giorgio campeggiava lo scudo cimato della corona di duca: un cerchio d’oro arricchito di gemme sormontato da otto fioroni. Sul campo d’oro una banda d’azzurro sostenente uno sparviero.
Le Pandette del nonno e i buoni affari del padre Cesare lo avevano destinato a essere educato in Palermo. Tra la prima nobiltà del Regno, affidato alle cure dei Padri Teatini del Real Collegio borbonico dove contrasse amicizia con nobili signori futuri padroni di tonnara.Tra costoro il Principe di Fitalia Giarratana, oltre che amico amante di tonnare e affittuario della tonnara dell’Arenella, grazie ai cui buoni uffici il D’Amico si ebbe la consulenza del rais palermitano Innocenzo Mancuso chiamato a risolvere i problemi di corrente di cui era afflitta la tonnara di San Giorgio.
In Palermo il duca d’Ossada tornava per i suoi affari, provvedendosi su quella piazza dei consigli e pratici maneggi dei migliori rais fino a divenirne lui pratico e filosofo osservatore,autore nel 1816 delle “Osservazioni pratiche intorno alla pesca, corso e cammino dei tonni…
Pratico dei maneggi di tonnare, investito d’autorità per essere stato richiesto in Palermo del suo giudizio ”in tante controversie insorte per rapporto di tonnare”, il suo progetto per la proibizione dei tonnicelli, in tempi in cui la “sterilitas piscium” si faceva sentire in tutte le tonnare sia calabresi che siciliane, ebbe la condiscendenza e sovrana approvazione delle regie Prammatiche. Ne guadagnava in stima presso tutti i proprietari di tonnare del Regno spendendola in diretta polemica con quel “Signor avvocato D’Avolio, siracusano, di cui, il duca d’Ossada soddisfatto, scriveva d’aver “atterrate tutte le riflessioni avanzate su quanto ha voluto pubblicare intorno a questa pesca” . E la contesa per la verità era stata così aspra che il segretario di Ferdinando IV scriveva al D’Amico di moderare i termini della polemica col D’Avolio invitandolo a purgare il testo del suo scritto sui tonni, per di più dedicato a sua Maestà, di tutte le espressioni pungenti in quanto non convenienti con la sua dignità di Duca!
Il duca d’Ossada, sparviero di razza, non aveva risparmiato uno sprovveduto d’avvocato, che “per scrivere su questa materia doveva farsi consultare da persone pratiche” : non era che l’appendice di quella infuocata polemica, fine ‘800, sulle migrazioni e corso dei tonni che la divulgazione della stampa ampliava a dismisura. Su Palermo e non Messina, ciclicamente afflitta da pestilenze e cataclismi, ultimo il terremoto del 1783 alle cui ferite il nonno aveva assistito da senatore della città, era caduta la scelta di affidare l’educazione del giovane rampollo: in Palermo, la città dei Florio, commercianti divenuti proprietari di tonnare della Vergine Maria, di Favignana, da Bagnara Calabra trasferitisi nella capitale dell’isola.
Tra la fine del secolo e gli inizi del 1800 la Palermo borbonica era pervasa dall’esuberanza imprenditoriale di Vincenzo Florio,di casa ormai al quartiere dell’Olivuzza: nasceva la cultura economica di una classe imprenditoriale, fin’allora inesistente, che voleva “dedicarsi ad utili intraprese” che non fossero “il travagliare e possedere la terra (7). Era il sorgere di quella economia, grazie alla quale, sarebbe fiorita la bella epoque, il cui liberty sarebbe fiorito anche nel palazzo dei Cumbo, eredi delle fortune D’Amico, a fine ottocento.
Il gusto per l’intrapresa aveva contagiato anche il duca d’Ossada che nella sua baronia di San Giorgio s’era messo a “pacciare”. Recita infatti il proverbio siciliano:”Se u riccu non paccìa, u poviru non mancia”. Ecco come lo racconta lo stesso D’Amico: “Si calava prima detta tonnara a diciotto canne di fondo ed a levante della chiesa di San Giorgio. Ma avendo il duca conosciuto con li suoi pratici maneggi e filosofiche osservazioni che li tonni non s’avvicinavano in terra, e passavano al di fuori del codardo della tonnara, che non era se non duecento canne di estensione, volle rintracciarne la cagione. Osservò che mezzo miglio distante, da dove era situata la tonnara a levante, vi erano certi scogli in mare chiamati la Gargana sotto il Saliceto, ed argomentò saggiamente, che questi erano quelli,che attraversavano il camino dei tonni, facendoli uscir fuori, come succederebbe l’istesso se vi fossero tonnare vicine. Quindi pensò con la consulta dei periti di situare detta tonnara in testa del capo, come sopra abbiamo rapportato, settecento canne pià a ponente del suo antico sito, e calata al fondo di ventisei canne (antica misura di lunghezza) d’acqua e un codardo di canne cinquecento, che abbraccia tutto il golfo, come al presente si ritrova”. La carta del Minasi allegata al libro del duca d’Ossada illustra i diversi siti del calato.
Il trasferimento della calata settecento canne più a ponente da sotto Saliceto al largo di punta Fetente costò caro al conte. “Per fare però tali operazioni ha dovuto erogare somme di denaro ingenti, giacchè si calava la tonnara nei tempi antichi con trenta ancore, ed ora si Ca-la con centoventi, alcune delle quali chiamate ancore di testa che servono a sostenere per quattro angoli tutta la estensione del corpo della tonnara, sono di cinque e sei quintali cadauna. Vi sono sette paliscarmi, e due, che si dicono Scieri Paliscarmi di entrare Vascelli, sono lunghi 70 palmi (un palmo circa 25 centimetri), e larghi 19 e 20, e servono per le grosse uccise, che si fanno nel corso, ed atti per cambiarli a poter fare in un giorno due entrate ed uccise di tonni” .
Trovandosi a passeggiare nella sua baronia sulla strada per Palermo in località Fetente il D’Amico imprecava alla malasorte maledicendo l’annata persa perchè non s’era vista nessuna coda di tonnina.
Nella casata si tramanda l’aneddoto come f accaduto l’altrieri. Sulla strada della Fetente il conte incontrò un mendicante e si commosse alla sua vista a donargli un tarì e pochi grani, tutto quanto trovò sue tasche che a lui ormai perso com’era a nulla sarebbero giovati, mentre al pover’uomo sarebbero viti a sfamarlo. Com’ebbe guadagnato l’ingresso della loggia trova loggieri e pesatori in agitazione. La muciara raisi aveva dato segnale di levata: bandiera rossa. Tonni !!! Un faratico correva a rispondere che il segnale era stato ricevuto inalberando il pallone bianco.
I tonni erano entrati in tonnara con la luna nuova o spinti da un vento favorevole da una perfetta calmaria o da una forte corrente come lo stesso duca dai pratici maneggi ipotizzava nel suo manuale.
Nelle sue “Osservazioni” se ne ha ancora un’eco delle cose straordinarie accadute in quell’anno: l’anno 1770 quando la ton di San Giorgio fu situata nella testa del capo del monte della Fetente, “a 28 maggio sono entrati in tonnara 2 mila tonni” e “con perfetta calmaria di mare una fiera corrente” gli mandò per traverso la tonnara: “medietà andò per levante restando medietà a ponente”.
“I tonni fuggirono ed io con le mie filosofiche osservazioni persuaso, che li tonni entrati nel golfo erano usciti, feci subito salpare le ancore con tutta la tonnara per preparare un nuovo calato, e per non perdere la pesca si è di nuovo crociata con un solo camerine l’uso delle tonnare di ritorno, ed in pochi giorni si effettuò il tutto, mettendosi in pesca la tonnara a 13 giugno”.
Non tutti approvarono l’operazione del conte giudicata fuori tempo e a stagione scaduta, ma lui che s’era sempre “regolato con le lunazioni” aspettava l’uscita dei tonni sperando in un’abbondante pesca per la sua tonnara.
“L’affare successe come da me era stato preveduto”: i primi tonni, esattamente 15, entrarono in tonnara il giorno 19 giugno alle ore 14 all’ora di guardia. I rais scesero a terra per darne notizia al conte: erano la “vanguardia” di migliaia di caravane serrate: avanzavano a duecento e a vespro a quattromila. Si dovettero serrare le bocche con le spighe. Il conte al segnale convenuto si portò a mare nel corpo della tonnara a dare ordini.
L’indomani 20giugno fece un’uccisa di 800 tonni, quindi un’altra di 1200 e così di seguito. Altri tonni entrarono in tonnara il 24 e 28 giugno e le uccise seguitarono fino al 6 luglio. Quell’anno il conte fece un’abbondante pesca di “seimila quintali di netto” (14).
Il duca d’Ossada che s’era trovato povero, al cambiar di luna, divenne ricco, ma non abbastanza ,”perchè essendo la stagione avanzata dal caldo, e sul dubbio, che li tonni uccisi non potessero puzzare, e quelli in tonnara uscirsene, pensai di fare ogni giorno quante più uccise potevo, e siccome avevo di mio conto in affitto la tonnara di Oliveri distante da quella dì San Giorgio nove miglia, e nelle tonnare di Milazzo ero socio, così mandava dei palischermi pieni di tonni in tutte le suddette rispettive tonnare per farli salare e non perderli. Se li prezzi di quei tempi fossero stati vantaggiosi, avrei certamente fatto un guadagno di cinquantamila scudi, ma essendo allora il prezzo onza una a quintale, feci il corrispondente introito di once seimila”
L’operazione del conte arrecò “generale sorprendimento” non solo alle tonnare della riviera di Milazzo, dov’era socio, ma in tutte le tonnare del Regno poichè “il corso era già passato e quasi tutte le tonnare si erano tagliate”.
Forse, in tempi più recenti, se rais e nuovi affittuari avessero letto le “Osservazioni” del D’Amico ne avrebbero tratto utile giovamento. L’ultimo anno di cala i tonnaroti sarpavano le ancore e i tonni passavano al largo. Non avessero avuto “prescia” a dare per persa l’annata invece degli otto tonni uccisi, ne avrebbero contati 80, 800, ottomila!
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CESARE MARIANO D’AMICO:
IL PRIMO ACQUISITORE DELlA TONNARA DI SAN GIORGIO.
Cesare Mariano D’Amico, barone di Guido e di San Giorgio, nel suo ritratto fresco di nuovo look di olio alla trementina, occhi celesti normanni che luccicano nell’ovale del viso rubizzo, è ancora in posa nei secoli a
rivendicare il titolo di primo acquisitore della tonnara San Giorgio. E ben a ragione il fatto di cronaca fu imposto al suo ritrattista essendo tutte le tonnare feudali, compresa quella di San Giorgio in feudum concessa don Berengario Orioles con rescritto di re Martino registrato a Catania addì 27 giugno 1407.
Cesare Mariano D’Amico nella cronistoria della tonnara di San Giorgio al contrario dei molti “affittatori” è primo “acquisitore”: acquistò tonnara e baronia di San Giorgio posta all’asta per conto del convento di San Fancesco d’Assisi in Palermo dal Pretore Giudice delegato per detta vendita. Per don Cesare Mariano Amico acquistò, quale procuratore, il fratello Don Marcello Domenico ex Giudice del Regno, il 9 febbraio 1751.
Il territorio “seu terre e mare” di essa tonnara di San Giorgio di Patti una col suo titolo di Barone e tutte le sue pertinenze esenzioni e privilegi” stimato e apprezzato dai Relatori, fu fatto proprio dal D’Amico con l’oblazione di onze 360 più la metà di tutte le spese sostenute a causa di detta vendizione e registrazione di contratto stipulato in Palermo.
Dopo cinque mesi dalla vendita di suddetta Baronia Cesare Mariano D’Amico moriva il 17 luglio 1751, lasciando erede il primogenito Cesare Francesco Carlo, ragazzo di 11 anni essendo nato il 19 settembre 1740 e a cui fecero da tutori gli avi materni Proto, i quali per la sua educazione scelsero il collegio dei Padri Teatini in Palermo.
Don Cesare Mariano D’Amico dopo essersi arrendata (dare in gabella) per più di trenta anni la tonnara di Oliveri per l’annua pigione di 400 oncie, ebbe la sua tonnara in una col titolo di barone di San Giorgio.
“Il Duca d’Ossada dopo un secolo nel 1758 prese in esercizio la sua tonnara di San Giorgio, ch’era stata abbandonata ed aveva fatto fallire molte persone che se l’avevano “arredata”.
Al titolo di barone di San Giorgio, ereditato dal padre, Carlo Francesco D’Amico aggiungeva quello più prestigioso di duca d’Ossada donde fu investito a 21 marzo 1777 “per averlo acquistato con privilegio delle strade Toledo e Maqueda agli atti di notar Giacomo Vella di Palermo, lì 27 febbraio 1777, da mani e potere di Goffredo Calveilo come recita il Nobiliario di Sicilia.
Cesare Francesco D’Amico nel 1763 aveva sposato Maria Teresa D’Amico, sua cugina, figlia di Marcello Domenico D’Amico Lucifero, zio paterno, e d’isabella Lucifero.
“Fu in Palermo Superiore della compagnia di carità nel 1788, pro conservatore della città di Milazzo nel 1769, 1774, 1782, 1786 e 1790. Fu senatore della città di Messina nel 1797-98, 1802, 1803 e 1804”.
E in Messina aprì le pagine del celebre “Osservatore peloritano” apparso nel 1798, per leggervi l’ultimo trionfo di Messina per l’acquisito titolo di capitale del Regno di Sicilia “con egual diritto ed in pari grado con la città di Palermo” .
P. Gregorio Cianciolo su incarico del senato messinese addì 26 novembre 1799 raccoglieva titoli e privilegi che per antico legittimo possesso la confermavano capitale del Regno di Sicilia.
testo tratto da Archeologia delle Tonnare Messinesi testi a cura del Prof Giuseppe Alibrandi Pubblicato dalla Provincia Regionale di Messina – Assessorato alla Cultura –
foto Antonio Modica, il Cav Giulio Lembo e la famiglia Cumbo Conti Borgia