Nulla è stato lasciato al caso nella rappresentazione andata in scena al Cine teatro Aurora di S. Agata di Militello
… se Pirandello temeva i fischi, ebbene Signori, l’altra sera a teatro solo applausi.
Nelle ultime battute della più bella drammaturgia italiana gli astanti non hanno più resistito e si è levato un clamoroso e lungo applauso.
Pubblico attento e colto quello che il 4 marzo, in sfida al temporale e alla esagerata comunicazione virale, ha assistito alla rappresentazione di un testo teatrale elaborato e ricco di significati.
Un testo, atto unico, nato dall’adattamento di opere teatrali di Pirandello: La Patente– L’amica delle mogli – Come tu mi vuoi – Uno, nessuno e centomila – Il berretto a sonagli .
La scena era scarna, pochi oggetti. Un teatro minimalista in cui le azioni, gli effetti passassero attraverso lo sguardo, la modulazione della voce, la gestualità senza eccessi per esaltare l’essenziale in ciò che non è detto e in ciò che non è visto.
Il ruolo principale lasciato alla più nobile arte: la Parola.
Non è il teatro dell’estremo movimento corporale ma del movimento estremo dell’anima. Un teatro da guardare anche ad occhi chiusi per diventare protagonisti delle scene.
Un gioco di luci. Luce ed ombra, calore e gelo, lente movenze, posizioni studiate, accostamenti scenici surreali, pause taglienti, musiche che scandivano il tempo che scorre, sempre volti verso un’unica fine: la rappresentazione della vita e della morte; il coraggio di presentare il proprio volto o la propria maschera.
Nulla lasciato al caso. Perché tutto si amalgamasse, come nella preparazione di un piatto da gourmet, in un’armonia di equilibrio pittorico. Cibo per il corpo ma anche cibo per l’anima. Combinazioni di pittura scenica sospesa, per trasmettere emozioni, riflessioni, eccitamento dei sensi, con figure capaci di uscire fuori o rientrarvi come in un quadro di Caravaggio.
Il pubblico pagante riempito di ebbra sensazione: “Oh, quell’ebbra sensazione di calore che gli nasceva dentro quando la vedeva …, e che poi gli saliva fino a raggiungere la lingua e a ridurre in cenere tutta la saliva che aveva in bocca” da I fiori non dimenticano di David Whitehouse.
Così, come davanti ad un quadro si rischia di essere colti dalla sindrome di Stendhal, così, a teatro, ci si abbandona a uno stordimento dell’anima, contagiati dalla potenza penetrativa della parola, come un’ondata di calore che nasce da dentro nel momento terminale dell’amplesso. Questa è la generosa consegna di un’artista.
E se il mondo è dominato dalla filosofia e dalla matematica, Ecco, quali porte, simbolicamente, apre la drammaturgia in chi la possiede: domande. Solo domande.
Chi sono io? Io per me? Io per gli altri? Uno. Nessuno. Centomila.
La nostra mente è piena di porte che possiamo aprire o lasciare chiuse per sempre. La porta stabilisce un confine tra il finito o l’infinito. Una demarcazione fra uno spazio angusto o uno più ampio. Un confine fra l’ordine e il caos. Fra un mondo con delle regole e uno di azione priva di logica. Aprire quella porta può lasciare uscire “la belva” della passione, della forza dell’amore o rimanere nell’aridità, tragica e selvaggia della solitudine. Oltrepassare quella porta equivale a passare da un modo di essere, o da un mondo, a un altro. A noi la scelta.
L’impegno recitativo di Gabriele Amata, Pina Carianni, Delfio Cassarà, Donatella Castrovinci, Salvatore Mancuso, Angelo Napoli, è stato quello di far risaltare la comprensione della psicologia presente all’interno di ciascun personaggio, gli intrecci fondamentali della sua storia, le sue dinamiche per farlo conoscere al pubblico.
L’accurato adattamento dei testi di Melina Bevacqua e la superba regia di Angelo Napoli hanno dato forza e credibilità all’opera teatrale.