– di Corrado Speziale –
Mentre la carovana di “Stop the war now” ha completato la missione umanitaria a Leopoli, il giornalista attivista messinese Antonio Mazzeo, al rientro, ha fatto tappa in Polonia, a Cracovia. Lo abbiamo contattato, dialogando con lui sull’esito della missione e sulle condizioni della città ucraina al confine con la Polonia, trasformata in un gigantesco campo profughi. Mazzeo ha anche manifestato le sue impressioni sullo stato della guerra e sui processi di pace, anche sulla scorta della sua precedente esperienza vissuta in occasione della guerra nella ex Jugoslavia.
Tanto per iniziare, i numeri sono sorprendenti e valgono come indicatori del dramma che sta vivendo l’Ucraina. Una volta consegnati gli aiuti umanitari, gli attivisti hanno partecipato ad un incontro cui erano presenti le autorità. “In sindaco della città – racconta Antonio Mazzeo – ci ha comunicato che a Leopoli, in questi giorni, sono state accolte 200.000 persone provenienti dall’est del Paese. Immaginate una città di 350.000 abitanti alle prese con 200.000 profughi. Praticamente quasi ogni cittadino, in proporzione, ha in carico una persona”. Il cuore del dramma, la stazione centrale di Leopoli: “Lì arrivano continuamente donne, bambini e anziani, persone in carrozzina con tante fragilità che fuggono dall’est. Nei loro volti – aggiunge Mazzeo – percepisci un senso di smarrimento, l’incapacità di rendersi conto ciascuno di chi sia, dove stia andando, cosa stia facendo. Ciascuno si sente in balia di un’onda che si riversa da un treno”. Eppure, in mezzo a tanta sofferenza, non mancano i contrasti, le contraddizioni che non si percepiscono dalle televisioni che danno notizie e immagini di quel luogo. La descrizione di Mazzeo: “Dal tetto della stazione, sopra quella distesa di persone, pende uno schermo gigantesco, al plasma, che trasmette costantemente pubblicità di un acquapark, in cui ragazze e ragazzi bellissimi, in costume da bagno, si divertono come fossero a Miami o alle Maldive…mentre sotto c’è la disperazione totale! Contraddizioni di una città proiettata su modelli di consumo occidentali, quando invece in questo momento è il cuore dei rifugiati, la capitale dei centri d’accoglienza, una città trasformata in campo profughi, con il maggior numero di rifugiati di tutta Europa, sulle cui teste scorrono queste immagini proiettate all’estate 2022, come se la guerra non esistesse”. Anche le reazioni al suono delle sirene antiaeree mostrano comportamenti differenti tra le persone: “Ieri pomeriggio, prima che facessimo la manifestazione, è suonata la sirena. Tra noi è salita un po’ di tensione – ricorda Mazzeo – non sapevamo dove andare, se in un tunnel o bunker, mentre soprattutto tra i ragazzi e le ragazze in centro città era come se non fosse successo nulla. Da una parte c’è l’assuefazione alla logica di guerra, dall’altra è come se questa non esistesse. Invece la guerra c’è. Vedi i rifugiati per strada, le ong che sfornano pasti e distribuiscono brodo caldo 24 ore al giorno. Nei check point vedi riproporre modelli di guerra come se ne vedono in televisione, da Prima guerra mondiale, con l’uomo di fronte al carro armato, niente a che vedere con le guerre tecnologiche vissute in Iraq e Afghanistan. Nelle vie principali c’è il filo spinato, materiali vari buttati a terra per non far transitare, trincee con sacchi di sabbia a mo’ di bunker. Oltre al confine, arrivando dalla Polonia, non c’è più la polizia, per strada c’è l’esercito. La guerra la vedi, la senti…” Anche la guerra divide per categorie: “Sicuramente – riflette Mazzeo – la guerra la sentono i poveri, perché hanno problemi di accesso ai generi alimentari. Consideriamo che ci sono centinaia di migliaia di persone che non lavorano più, che hanno perso ogni minima fonte di reddito”. Le impressioni su Leopoli: “Al centro sembra una bella città turisticamente accogliente, con bei negozi, poi ti sposti un po’ e noti gente poverissima che vende piccole cose per strada. La guerra in questi casi l’avverti attraverso pressioni e sofferenze”. Un’altra curiosità ha dell’inquietante, dal punto di vista della propaganda: “Nella via principale campeggiano manifesti orribili, che fanno respirare la guerra, come quello che riporta la foto di una donna bellissima con i colori dell’Ucraina con la pistola puntata dentro la bocca di Putin. Manifesti in cui cerchi di demonizzare il nemico, di disumanizzarlo e di sfotterlo. In un’altra immagine, sempre con Putin, c’è un soggetto che gli schiaccia la testa. Un’altra ancora, mostra la Piazza Rossa di Mosca a forma di nave che sta affondando in un lago di sangue, con insulti alla Russia altamente offensivi, irripetibili”.
Un atteggiamento che ha dato all’attivista messinese particolarmente fastidio: “L’uso costante del termine vittoria, un’espressione che ho sentito ripetere continuamente, in tante situazioni”. Altre percezioni da rilevare: “Si nota un misto di rassegnazione, con un dato di fatto: sono convinto che a questa guerra le persone siano arrivate preparate culturalmente, ideologicamente e politicamente”. Le considerazioni: “È stata una guerra preparata. Non è scoppiata il 24 febbraio, era già in atto subito dopo il 1989. Non c’è stato atto da una parte e dell’altra che non sia stato funzionale alla guerra. Mi chiedo come non se ne sia accorto nessuno. Oppure se ne sono accorti tutti e andava bene che l’epilogo fosse l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia”. Un elemento probante: “Tutte le case erano già predisposte con bunker e cantine, pronte come rifugi. Le case, soprattutto quelle nuove, hanno bunker funzionali. Nei sotterranei ci sono stanze, bagni, c’è tutto predisposto, sono abitabili in casi di emergenza. Anche nell’istituto religioso che ci ha ospitato, relativamente nuovo, sotto c’era un gran bunker. Per questo dico che era una guerra attesa. Lo sapevano tutti che prima o dopo sarebbe scoppiata. Dunque, se lo sapevano gli ucraini, come facevano a non saperlo a Washington, Bruxelles, Parigi e Roma…?”. Mazzeo, a tal proposito, ha notato all’incontro tra i rappresentanti della società civile e le istituzioni, l’atteggiamento dell’ambasciatore italiano, Pier Francesco Zazo, adesso con sede a Leopoli. Unica ambasciata rimasta in Ucraina tra i paesi del G7 oltre a quella francese. “L’ambasciatore ha capito che non era il caso di presentare la posizione ufficiale del governo italiano. Anch’egli, pur non dicendolo, ha fatto intendere che si sarebbe andato verso questo epilogo”.
Il commento su quell’incontro, che ha anticipato il corteo per la pace intorno alla stazione di Leopoli: “Hanno fatto intervenire soltanto le istituzioni. I gruppi della società civile hanno mostrato fragilità”, dice con rammarico Mazzeo. Da qui, i paragoni con la precedente esperienza nell’ex Jugoslavia, a Sarajevo: “Ci siamo proprio confrontati tra noi che avevamo fatto quell’esperienza. Non c’era niente da paragonare. In ex Jugoslavia esistevano tantissime soggettività ed esperienze culturali. Fermo restando che si tratta di due paesi completamente differenti e di due conflitti con situazioni, dinamiche e attori altrettanto differenti. In Ucraina mi sembra molto più complicato e difficoltoso trovare interlocutori forti e radicati così come li trovammo in Bosnia, Croazia e Albania. Questa è una sfida che dobbiamo assolutamente sostenere. Il movimento No War se vuole incidere nei processi di pace deve proprio lavorare su questo. Ci vogliono interlocutori tra la società civile, ovviamente non limitandosi solo all’area di Leopoli. Bisogna agire in tutta l’Ucraina, anche rispetto al Donbass. In ex Jugoslavia eravamo presenti dove cadevano le bombe, non soltanto nei luoghi che ospitavano i rifugiati. Adesso qui si deve rafforzare questo tessuto territoriale, affinché i movimenti esterni abbiano la possibilità di costruire ponti, relazioni tra noi e loro e tra loro stessi”. Un esempio calzante su ciò che non ha funzionato rispetto alla passata esperienza: “Ieri è saltata anche la possibilità di vedere all’incontro le chiese ortodosse, mentre a Sarajevo eravamo riusciti a far incontrare l’iman, il rabbino, il vescovo…”
I possibili protagonisti: “Iniziare ad interagire con i rifugiati, con le altre realtà che esistono anche in Donbass. Creare rapporti con tutti quei soggetti che in Russia, in questo momento, stanno manifestando contro la guerra. Le madri, le donne, gli obiettori di coscienza, i disertori. Sono questi i nostri interlocutori con cui dobbiamo veramente lavorare. I movimenti sociali possono fare da ponte tra i soggetti che si oppongono alla guerra in Russia e quelli che vogliono costruire un processo reale di pace e di dialogo in Ucraina”.
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