di Michele Manfredi-Gigliotti
Come è noto, durante i lavori di costruzione dell’autostrada “A 20” Messina-Palermo, nel tratto posto tra il promontorio di Tindari e Gioiosa Marea, quasi alla periferia del centro abitato di Patti e in adiacenza alla sua stazione ferroviaria, nel momento in cui, effettuati gli scavi di posizionamento, stavano per essere fondati i pilastri di sostegno del viadotto, dopo un letargo in inumazione durato parecchi millenni, è venuta alla luce per pura casualità una importante villa patrizia romana di straordinaria bellezza che, per estensione e dotazione musiva, può, senz’altro, essere comparata e competere con la più nota villa del “Casale” o “Filosofiana”di Piazza Armerina.
Il ritrovamento, come si è detto, non si è verificato a seguito di un programma mirato di ricerche e scavi, ma ha avuto come cornice la pura e semplice casualità, al punto che della sede autostradale è stato necessario deviare il corso che, in riferimento al senso di marcia Palermo-Messina, ha subito una improvvisa e pericolosa convergenza a sinistra al fine di proseguire a latere dell’area archeologica preservandone, così, la sua stessa esistenza.
Quanto precede sta a dimostrare, ove ve ne fosse bisogno, con quali modalità vengano realizzate, nel nostro secolo e nel nostro Paese, le grandi opere pubbliche. In qualsiasi Paese civile del mondo, tale importante realizzazione viaria sarebbe stata preceduta da adeguate consulenze e perizie tecniche, nonché da introspezioni geologiche e aerofotogrammetrie che avrebbero rivelato, in modo preventivo e circoscritto, la presenza degli importanti resti insediativi concedendo, così, il tempo per progettare un percorso viario più agevole ed evitando quella improvvisa sterzata del nastro autostradale che a causa della sua forza centrifuga ha provocato tanti sinistri a volte con esiti mortali.
Che l’autostrada in argomento fosse da classificarsi, dopo tanti secoli di abbandono, opera di straordinaria importanza per l’Isola sotto l’aspetto viario, viene testimoniato dalla preesistente rete delle comunicazioni, vecchia di millenni, ma che, tuttavia, ha consentito nei secoli trascorsi lo sviluppo degli interscambi tra le varie antropizzazioni della Trinacria: a partire dalla via romana Consolare Valeria Pompeia, per proseguire man mano, durante l’evolversi dei secoli, con le vie mulattiere, con le regie trazzere, le strade statali, provinciali e comunali. Specularmente alle vie sopra menzionate, la rete ferroviaria, insulare in particolare e meridionale in genere, non appare facilmente classificabile, perché la comparazione ci porterebbe, con il ricordo, alle vetture dei primi convogli del Far West: mancano soltanto le etnie pellirosse con gli archi e le frecce! Si ponga mente alla circostanza per la quale la tratta ferroviaria Palermo-Messina viene coperta in ben tre ore e mezza, più di quanto, cioè, si impiega a coprire quella Milano-Roma.
Fatta la superiore premessa e prima di parlare dell’ importante reperto archeologico venuto alla luce, appare necessario dare alcune indispensabili notizie comprensive dei tempi storici nei quali la villa venuta alla luce era abitata.
I luoghi sono ubicati nella zona pedemontana dei monti Nebrodi, nella parte lambita dal mare Tirreno, a quattro passi da Tindari che, illo tempore, era il centro urbano più importante di tutta la zona e, per questo, punto calamitante e propulsivo di tutta la cwra (contado) circostante l’insediamento.
Ai tempi di cui si discorre, i rapporti tra Tindari e Patti erano esattamente invertiti e capovolti: Tindari era il capoluogo, il centro urbano polare, mentre Patti era appena un ager, che poteva contare su sparuti e disseminati insediamenti di tipo agricolo, tanto è vero che la cwra di Tindari era costituita, ad ovest, dal territorio dell’attuale comune di Patti che, ai tempi di riferimento, rappresentava lo sfogo agricolo, artigianale, manifatturiero, nonché residenziale di Tindari.
Con ogni probabilità, non esisteva ancora neppure il toponimo “Patti”. Esso compare, per la prima volta, con la forma “Pactes”, nell’anno 1094 e si trova riportato in tre pergamene: una contenente l’elenco delle donazioni effettuate dal Granconte Ruggero d’Altavilla e da altri suoi dignitari a beneficio del monastero di San Bartolomeo in Lipari; un’altra contenente l’atto tramite il quale è stato fondato il monastero di San Salvatore in Patti e l’ultima che rappresenta la disposizione attraverso la quale il vescovo delle diocesi riunite di Messina e Troina, Roberto, esprime il suo placet dando il consenso per la fondazione del monastero di San Salvatore.
Secondo l’ipotesi avanzata da G. Uggeri (La viabilità della Sicilia in età romana, Galatina, 2004) il toponimo, Pactes, con ogni probabilità deriva da hipatos, ossia dalla professione di uno dei proprietari della villa che aveva intrapreso il cursus honorum consolare, allo stesso modo, praticamente, per cui la villa del Casale di Piazza Armerina è intesa, anche, Sofiana da sofia, che rappresentava l’attività del suo proprietario, di professione filosofo.
Ad est, il contado di Tindari si estendeva, certamente, sino a ricomprendere gran parte del territorio dell’attuale Oliveri che, per il versante di sua pertinenza, rappresentava lo sfogo marittimo (con ogni conseguente implicazione di natura marinara [pesca e conservazione del pesce], produzione di condimenti culinari in particolare di natura ittica [garum]), nonché di villeggiatura degli abitanti della città di Tindari) : gli straordinari laghetti di Marinello non potevano passare inosservati al buon gusto del popolo di Tindari che i reperti indicano come un popolo amante delle arti, della cultura e del bello in genere.
Riferendoci al territorio di Oliveri, è stato precisato che il dominio tindaritano comprendeva gran parte del territorio considerato e ciò in quanto non bisogna dimenticare che stiamo parlando del territorio amministrativo-pertinenziale, sul quale, originariamente, esercitava il suo potere dominicale la città di Abacaenum (nel territorio dell’odierna Tripi), la quale per la verità non aveva digerito di buon grado il fatto che le fosse stato sottratto quel vasto territorio di sua pertinenza per essere destinato alla ri-fondazione di Tindari. Una estensione maggiore della cwra di Tindari in direzione nord-est avrebbe finito, con ogni probabilità, con il fare confliggere, con l’uso delle armi, le due città testé nominate.
L’importanza economica, politica e militare conseguita da Tindari in così breve tempo (favorita com’era dalla posizione e dai commerci terrestri e, soprattutto, marittimi intrattenuti anche con l’Oriente), ha indotto negli insediamenti urbani limitrofi, compresa l’antica egemone Abacaenum, una sorta di metus reverentialis simboleggiato dall’osservanza di una pax coacta che, tutto sommato, è servita a scongiurare il pericolo di sanguinosi conflitti armati.
Secondo la tesi comunemente accettata, la colonia di Tindari (le notizie sull’insediamento e sulla sua storia riferibili, quindi, al periodo greco-siracusano, ci sono pervenute con il contagocce, per lo più riferibili a Diodoro Siculo e Plinio il Vecchio, i quali, in verità, hanno tràdito dati minimi e, a volte, piuttosto incerti, al contrario, invece, di quanto è avvenuto per il periodo romano della colonia in cui le notizie tramandateci sono puntuali e esaustive), è stata dedotta nell’anno 396 a.C. (secolo IV a.C.) da Dionisio I, tiranno di Siracusa, che si è fatto carico di impinguarla demograficamente con un nutrito contingente di mercenari siracusani (in realtà, Siracusa era l’ultima stazione di partenza del contingente umano per Tindari, poiché nella realtà storica si trattava di truppe mercenarie di origine messena, medmea e locrese) che avevano combattuto al suo fianco durante il conflitto sorto tra Siracusa e Cartagine.
Senza volere, con questo, contestare il dato storico per cui nell’anno 396 a.C. Dionisio I di Siracusa ebbe a dedurre una colonia a Tindari, essendo questo un dato accertato, vogliamo sottolineare che da parte degli studiosi odierni non si è pervenuti a comprendere la ragione e le motivazioni per le quali l’insediamento dedotto da Dionisio I abbia assunto la denominazione toponomastica di Tindari.
La città venne denominata, nell’ antica lingua di Omero, Tindari (Tundaris) in onore di Tindaro padre dei Dioscuri, Castore e Polluce.
Tindaro, figlio di Ebalo e Gorgofone, era re di Sparta, ma fu scacciato dal trono della città della Laconia ad opera del proprio fratello Ippocoonte. Successivamente, egli venne reinsediato sul trono, da cui era stato destituito, ad opera e con l’aiuto di Eracle. Sposò Leda da cui ebbe quattro figli: Clitennestra (andata sposa ad Agamennone, mitico re dell’Argolide); Elena (andata sposa al re di Sparta, Menelao, e motivo scatenante della guerra tra gli alleati greci e Troia) e, infine, Castore e Polluce, questi ultimi detti anche Tindaridi.
Il battesimo della nuova fondazione con il nome di Tindari non può avere altro significato se non quello di rendere omaggio (per qualche ragione tuttora sconosciuta) ai Dioscuri, Castore e Polluce, attraverso il ricordo ad honorem del loro genitore, Tindaro.
Che a Tindari fosse ampiamente diffuso il culto dei Dioscuri risulta scolpito nelle pietre, nelle ceramiche e nel bronzo, ossia nei mosaici e nella monetazione pervenutici.
E’ incontestabile che la denominazione dell’insediamento spettasse, jure et de jure, al fondatore o, se l’ipotesi nostra è fondata, al ri-fondatore della città, ossia in questo caso a Dionisio I.
E’ altrettanto incontestabile che l’esercizio di tale diritto spiazzi ancora di più lo storico, non essendo tuttora noti i motivi per cui Dionisio I sentì il dovere di rendere onore ai Dioscuri attraverso il ricorso alla trascrizione, nelle pagine della storia, della memoria del loro padre, mentre nel territorio da lui direttamente governato, Siracusa, lo stesso personaggio mitico non aveva ricevuto lo stesso trattamento privilegiato.
Né, d’altra parte, esistono notizie storicamente accertate secondo cui la denominazione della città fu postuma rispetto al tempo della sua fondazione. Ciò significa che Tindari si chiamò così nel momento in cui il contingente di mercenari ebbe a stanziarsi nella fondazione coloniale, per cui momento fondativo e momento denominativo sarebbero accomunati dalla sincronicità.
Per quanto riguarda la nostra personale opinione, siamo più che convinti che, prima dell’anno 396 a. C., ritenuto l’anno di fondazione della città, esistesse già, sul promontorio di quello che poi venne denominato Promontorio di Tindari, un insediamento umano a carattere primordiale, comprensivo almeno delle strutture elementari ed essenziali di un futuro nucleo urbano, nel quale Dionisio I ebbe ad inserire i suoi mercenari in numero tale da costituire l’elemento etnico-demografico predominante rispetto alla presumibile popolazione indigena preesistente.
Siffatta operazione consentiva al tiranno siracusano di ricompensare, per un verso, i mercenari per i servizi che gli avevano reso in passato combattendo per lui e, allo stesso tempo e per altro verso, di potere eventualmente contare sulla loro solidarietà per l’avvenire.
Se questo è, dunque, il quadro storico entro il quale ebbero a verificarsi gli avvenimenti relativi alla deduzione della colonia di Tindari, le considerazioni che faremo da qui a poco non possono che essere fondate, siccome da un teorema collaudato discendono i consequenziali corollari.
Non si può ragionevolmente argomentare che il “premio” per i mercenari che avevano combattuto a fianco di Dionisio I contro i Punici, potesse consistere solo ed esclusivamente in un terreno, per così dire, edificabile, anche se detto suolo era situato su uno dei promontori tra i più belli di Sicilia.
Ciò comporta che necessariamente un nucleo urbano dovesse preesistere, anche se, è ragionevole ipotizzare, esso doveva consistere o in un agglomerato urbano in nuce e, quindi, in fase di realizzazione, oppure, al contrario, in fase di calo e depauperamento demografici, nonché di degrado civile, economico e politico generalizzato.
Per altro verso, occorre sottolineare che ogni racconto mitologico non é mai stato una pratica di mera invenzione o di affabulazione, fine a se stesso; esso racchiude sempre una verità storicamente fondata, anche se tràdita in modo criptato secondo linee di fantasie e superstizioni di origine demotica.
Quale conseguenza delle considerazioni che precedono, sarebbe di gran lunga più credibile, ipotizzare che solo una gente proveniente dalla Laconia potesse conoscere così nel dettaglio il mito di Tindaro e dei figli, Castore e Polluce, al punto di avvertire la necessità di battezzare un loro insediamento antropico con il nome di un mitico re appartenente alla loro storia.
I casi ipotizzabili sono due:
(A)
La città si chiamava Tindari già prima che essa fosse ri-fondata da Dionisio I, che ne avrebbe mantenuto la toponomastica. Ciò presupporrebbe la deduzione di una originaria apoicia (colonia) da parte di un contingente di coloni proveniente presumibilmente dalla Laconia. In passato (in particolare, a partire dalla fine del sec. VI a. C.), intere popolazioni della Grecia, spinte in un primo tempo dalle pressioni lungo i confini e, successivamente, dalle invasioni vere e proprie di determinate etnie, Avari e Slavi, erano state costrette ad abbandonare le loro terre per spingersi a sud, verso la Laconia e la sua punta estrema, Mani o Maina, ultima spiaggia prima del mare Egeo. Alcune di tali popolazioni, fiere e ribelli, anziché vivere in patria in stato di schiavitù, preferirono abbandonare la Grecia, dirigendosi verso Occidente ove si stanziarono nelle stesse terre che avevano costituito le loro antiche apoiciai, ossia la Sicilia (con particolare riguardo al litorale della provincia di Messina, soprattutto San Marco d’Alunzio, nel quale ultimo centro sia Ewald Kislinger (Monumenti e testimonianze greco-bizantine di San Marco d’Alunzio, Sant’Agata Militello, 1995 ), che lo scrivente (Demenna nella letteratura arabo-sicula, Sant’Agata Militello, 2006), hanno ritenuto di individuare la città di Demenna; la Calabria (in particolare, Reggio Calabria e il suo territorio provinciale, ove sono ubicate Locri e Medma (Rosarno), da cui proveniva la stragrande maggioranza dei cosiddetti mercenari siracusani collocati a Tindari); l’isola di Orobi e quella di Egina (Cronaca di Monemvasia, Dujcev).
E’ pur vero che tali flussi migratori ebbero a svilupparsi verso la fine del sec. VI a. C., ma è altrettanto assodato che essi continuarono nel tempo e non furono mai definitivamente interrotti.
I dati che precedono autorizzano l’ipotesi per la quale il territorio di Tindari fu raggiunto, qualche secolo prima dell’anno 396 a. C., da un flusso migratorio di Lacedemoni dai quali essa prese la sua denominazione onomastica in una con la pratica del culto di Castore e Polluce.
A supporto dell’ipotesi avanzata sopra, ricordiamo che la retrodatazione dei reperti archeologici, nonché l’esame dei materiali edilizi impiegati e la tecnica edificatoria (sia per gli edifici civili, che per quelli militari, come le mura di cinta della città) nell’area archeologica di Tindari, dimostra che la città esisteva, inequivocabilmente, in epoca di gran lunga precedente a quella comunemente riportata dagli storici come riferita alla sua fondazione ufficiale, per cui la denominazione onomastica di Tindari potrebbe racchiudere una storia ben più antica di quella comunemente accettata.
(B)
La seconda delle ipotesi è che alla città venne attribuito il nome di Tindari al momento della sua ri-fondazione ad opera di Dionisio I. Anche questa prospezione, pur se avanzata in subordine, contiene la medesima dignità della prima, possedendo lo stesso fondamento di serietà, in quanto, come abbiamo accennato sopra, la maggioranza dei cosiddetti mercenari siracusani, era costituita da guerrieri di origine greca, che si erano stanziati nei territori dell’ ex Magna Grecia. Costoro provenivano, per la maggior parte, dalla Laconia e da Patrasso ed era gente esperta nell’uso delle armi, nonché intrepida, forte, tenace e di valore: tutte virtù, queste, che erano state dimostrate durante il servizio reso al tiranno di Siracusa.
Sono storicamente provati dalle fonti storiche (Cronaca di Monemvasia, Dujcev) continui flussi migratori dalla Laconia verso Reggio Calabria e il suo territorio, sia costiero che interno (a dimostrazione di ciò, si rammenta che la maggioranza dei mercenari ri-fondatori erano, infatti, Medmei e Locresi).
Ancora oggi in queste zone i nomi delle persone e i toponimi racchiudono esplicite testimonianze della presenza dorica (il nome, ad esempio, di Demetrio Minniti, è diffusissimo; a pochissimi chilometri da Reggio Calabria, esiste una frazione amministrativa denominata Diminniti; in Aspromonte, nell’ambito della circoscrizione amministrativa del comune di Scido, esiste una contrada chiamata Diminiti; una omonima contrada è registrata nel comune di Gerace, mentre un casale Diminniti è presente nel comune di Calanna).
In linea con quanto è stato sopra detto, sarebbe giustificabile e, soprattutto, spiegabile come mai la ri-fondazione abbia assunto la denominazione di Tindari in onore dei Dioscuri dei quali Tindaro era il genitore.
Solo una gente con forti legami con la Laconia e con Sparta (anche se attraverso la mediazione della permanenza nella Magna Grecia), poteva legittimamente pensare a Tindaro e ai Dioscuri per intitolare loro una città nell’isola di Sicilia.
Non sono note altre valide ragioni per le quali gli abitanti di Tindari avrebbero dovuto rendere tanto onore ai Dioscuri e al loro genitore.
E’ pur vero che il culto di Castore e Polluce ebbe nel territorio della penisola italiana una discreta divulgazione. Si pensi alla benevolenza con la quale tale culto venne accolto nel pantheon della Città Eterna, ma ciò, come è risaputo, avvenne molto tempo dopo quello al quale ci stiamo riferendo e, inoltre, in modo alquanto ordinario e non già eccedendo nella attribuzione degli onori. Ancora oggi, a Roma, è possibile ammirare quelli che sono i resti del culto dei Tindaridi.
A piazza del Quirinale, infatti, proprio in posizione frontista all’entrata principale del palazzo presidenziale, sono posizionate le bellissime statue di Castore e Polluce, probabilmente copie di originali greci, asportate dalle vicine Terme di Costantino; altre due statue relative ai gemelli sono posizionate nella piazza del Campidoglio. Tuttavia, tale culto non raggiunse mai un carattere di esclusività: era un culto religioso come tanti altri ve ne erano in una società, come quella d’allora, di fede politeista.
Fatta la superiore premessa, necessaria peraltro alla comprensione della seconda parte dell’elaborato relativa alla villa romana venuta alla luce a Patti, ci occuperemo, finalmente, di tale reperto di straordinaria importanza, da un punto di vista assolutamente sui generis, in quanto attinente più che altro alla endostoria, nell’ambito del diritto privato, dell’edificio.
Tale aspetto fu da me trattato nell’anno 2003, quando vide la luce “Variae Historiae Fragmenta” (Edizioni Mediasoft), che comprende un capitolo riguardante la villa romana di Patti, del quale l’odierno lavoro rappresenta una rivisitazione con qualche aggiunta.
Nel momento in cui i giornali quotidiani riportarono la notizia dell’eccezionale rinvenimento, il primo impulso che avvertii urgermi dentro fu quello di fare il tentativo di una associazione storica tra i resti edilizi venuti alla luce e quel tale Gaio Licinio Verre, il quale, per quante ne ha dette o, meglio, scritte Marco Tullio Cicerone, ne combinò di cotte e di crude durante il suo soggiorno per motivi politico-professionali in Sicilia.
Il riferimento era mirato a quanto scrisse il grande Arpinate nell’“actio secunda, liber quartus” dell’orazione “In Gaium Verrem”, orazione che Cicerone non fece in tempo a fare ascoltare nella sua interezza ai magistrati romani della quaestio perpetua de repetundis, il tribunale il quale, sedendo in permanenza, aveva competenza esclusiva a giudicare gli imputati dei delitti di repetundae, ossia dei delitti di concussione, nonché di quelli di lesa maiestatis, ossia contro la cosa pubblica, e di iniuria, che originariamente consisteva in qualsiasi comportamento antigiuridico (in=contro e jus=diritto), mentre, a partire dalla Lex duodecim tabularum, cominciò a ricomprendere qualsiasi lesione della personalità psico-fisica altrui.
Proprio dinanzi a questo tribunale specializzato, che era presieduto dal praetor peregrinus, venne tratto a giudizio Gaio Verre, per rispondere degli innumerevoli reati di concussione da lui consumati sul territorio siciliano, durante tutto il periodo nel quale egli aveva assunto ed esercitato le funzioni di propretore.
Come si diceva, Cicerone non fece in tempo a svolgere la sua accusa nei confronti del magistrato romano, ragione questa che fa ritenere l’orazione più un pregevole esercizio letterario che una requisitoria giudiziaria vera e propria. A Roma, le funzioni di pubblico ministero nel sistema giuridico dell’epoca venivano svolte da privati cittadini che si incaricavano, motu proprio, di raccogliere le prove a carico di un indagato e si offrivano di sostenere in dibattimento la pubblica accusa, qualora, ritenendo di possederne i requisiti necessari, si sentivano di farlo personalmente, oppure assumevano ad hoc un advocatus o un peritus oppure, ancora, entrambi.
Cicerone, ovviamente, assunse la pubblica accusa personalmente, avendo come avversario il valorosissimo avvocato Quinto Ortensio Ortalo che aveva assunto la difesa dell’ imputato.
Come, infatti, è noto, Verre, schiacciato dal materiale probatorio conferito da Cicerone agli atti del processo, non ebbe la faccia tosta o il coraggio di presenziare a tutte le udienze istruttorie del processo a suo carico sino al momento conclusivo dell’emissione della sentenza. Così, verso la metà del mese di settembre dell’anno 70 a. C., mentre il dibattimento era al culmine del suo iter, Verre, forse avendo pronosticato quale sarebbe stato l’esito del processo, si allontanò in volontario esilio e la sentenza di condanna intervenne prima che Cicerone avesse fatto in tempo a pronunciare per intero la sua requisitoria.
L’epicentro della requisitoria ciceroniana era costituito dalla ricostruzione esatta e minuziosa, con ogni particolare giuridicamente rilevante, degli atti di concussione compiuti da Verre quando svolse le funzioni di propretore in Sicilia.
Seguendo tale falsariga, Marco Tullio cominciò a narrare i singoli crimini consumati da Verre in danno di EUPOLEMO di CALACTE (Caronia), di ARCAGATO di HALUNTIUM (San Marco d’Alunzio), di ESCHILO e TRASONE entrambi di Tindari (par. 43-49).
Nel medesimo passo oratorio, l’avvocato romano illustra, anche, un altro episodio che conferisce agli atti la prova del nove, ove ve ne fosse stata ancora necessità, della rapacità del magistrato romano inquisito.
Egli narra, a beneficio della ricostruzione storica e dei magistrati giudicanti, che durante lo svolgersi di un banchetto offerto proprio in suo onore da GNEO POMPEO FILONE in una villa “presso Tindari”, essendo stata portata a tavola una pietanza in un vassoio ornato di figure (si trattava di un vassoio impreziosito da splendide figure in bassorilievo certamente confezionate con materiale pregiato e di alto valore), Verre tolse per sé le figure e lasciò al padrone il vassoio che era stato spogliato “sine ulla avaritia” (par. 48).
“Gnaeus Pompeius est, Philo qui fuit, Tyndaritanus. Is cenam isti dabat apud villam in Tyndaritano. Fecit quod Siculi non audebant; ille, civis romanus, quod erat, impunius id se facturum putavit; apposuit patellam in qua sigilla erant egregia. Iste continuo ut vidit, non dubitavit illud insigne penatium hospitaliumque deorum ex hospitali mensa tollere, sed tamen, quod ante de istius abstinentia dixeram, sigillis avulsis reliquum argentum sine ulla avaritia reddidit”.
Nella nostra lingua:
“Prendete il caso di Gneo Pompeo di Tindari, che prima si chiamava Filone. Egli allestiva un pranzo in onore di Verre nella sua villa allocata nel territorio di Tindari e fece una cosa che i Siciliani non avrebbero mai osato: fece portare in tavola un piatto impreziosito da splendide figure in bassorilievo; poiché egli era un cittadino romano, pensava di potersi comportare così senza correre eccessivi rischi. Ma fu un momento: come lo vide Verre non esitò ad asportare dalla mensa del suo ospite quel simbolo del culto degli Dei Penati e protettori degli ospiti, ma tuttavia, per confermare quel che aveva detto prima sulla sua delicatezza, una volta strappati i bassorilievi, restituì l’argento che restava senza ombra di avidità”.
Chi era, alla fine, questo Gneo Pompeo qui fuit Philo?
Non abbiamo elementi dai quali potere trarre una minima descrizione biografica del personaggio. Tuttavia, il brano sopra riportato, escerpto dalle “Verrine”, malgrado le scarnissime notizie tràdite da Cicerone e non essendo egli, come detto, noto aliunde, contiene alcuni indizi dai quali si possono agevolmente ricavare alcuni elementi oggettivi riferibili al personaggio.
Era, certamente, un siciliano di originaria etnia greca.
A dimostrazione di tale sua origine greco-ellenistica milita l’antico cognomen che Cicerone afferma essere stato FILONE (PHILO), che è patronimico di indubbia matrice greca (filos=AMICO, da cui è derivato l’odierno patronimico D’AMICO?).
Tuttavia, sempre secondo la notizia riportata da Cicerone, nel momento storico nel quale si parla di lui, il personaggio non si chiama più Filone (qui fuit Philo), ma Gnaeus Pompeius.
Tale variazione onomastica, con soppressione dell’antico patronimico, dimostra che il Nostro, cittadino siciliano, precisamente Tindaritano, aveva ottenuto la cittadinanza romana (civis Romanus quod erat) e, per questo, aveva assunto il prenome e il gentilizio del suo patrocinatore, secondo il diritto positivo vigente di Roma, il quale statuiva che lo schiavo, al quale venisse concessa la libertà (manumissio iurata liberti) e lo straniero, al quale venisse ottriata la cittadinanza romana, dopo avere abbandonato il loro antico cognome, assumessero il prenome e il gentilizio di colui che li liberava dalla schiavitù o ne patrocinava la causa per il conferimento della cittadinanza romana.
Il Nostro, dunque, doveva certamente essere un personaggio notevole nell’ambito della vita civile o militare dell’epoca se, di origine straniera e, per questo barbara, aveva ottenuto di diventare civis Romanus a tutti gli effetti di legge.
Ma questo non è tutto quello che può arguirsi attorno a questo personaggio della provincia romana.
Come si può agevolmente ricavare dalla sua storia anagrafica, egli non solo aveva ottenuto di essere annoverato quale cittadino romano di pieno diritto, quanto, circostanza, questa, di notevolissima importanza, aveva ottenuto di essere affiliato, addirittura, ad una delle gentes storicamente più importanti della nomenclatura patrizia romana: la GENS POMPEIA (anche se tale affiliazione non fu, con ogni evidenza, sufficiente a metterlo al riparo dall’ azione espoliativa perpetrata ai suoi danni da Gaio Verre).
La cittadinanza di Roma, soprattutto se si trattava di uno straniero e, per giunta, residente in una lontana provincia, non veniva concessa con tanta facilità. Le precauzioni che venivano assunte dalla burocrazia capitolina erano meticolose e il più delle volte il richiedente era costretto a sborsare, in nero s’intende, moltissimi sesterzi.
Gneo Pompeo, qui fuit Philo, doveva certamente appartenere all’élite economica di Tindari. Doveva, in sostanza, essere un personaggio notevole per capacità intellettuali, qualità morali e, soprattutto, possidenza economica.
E’ importante sottolineare l’alto livello censuale del Nostro, in quanto il proprietario della villa romana venuta alla luce a Patti non poteva non essere un personaggio in vista e molto facoltoso.
L’imponenza dei resti edilizi rinvenuti; la ragionevole certezza che non tutto il complesso edilizio residenziale sia venuto alla luce, ma che altri reperti siano ancora in attesa di essere esumati; la preziosità dei mosaici che fa apparire del tutto appropriata la comparazione tra questa villa e quella c.d. FILOSOFIANA, la villa di Piazza Armerina, sono tutti elementi di uno stesso mosaico dai quali è lecito desumere una notevole importanza del proprietario al punto che diventa un fatto di ordinaria amministrazione, e non eccezionale, la possidenza e la conseguente esibizione di un vassoio talmente prezioso da stuzzicare gli appetiti, non certo gastronomici, di Gaio Verre, che non si perita di trattenere i suoi istinti predatori pur in presenza di un civis Romanus, per giunta appartenente alla gens Pompeia.
La circostanza riportata da Marco Tullio, infine, secondo cui la villa in argomento si trovava allocata “presso Tindari”, è l’ultimo degli elementi indiziari che fa ragionevolmente ritenere che quella di Patti (almeno fin tanto che non venga alla luce “presso Tindari” un’altra villa di uguale o maggiore sontuosità di quella di cui si discorre) sia proprio la villa di cui parla Marco Tullio Cicerone e nella quale un giorno imprecisato del 71 a. C., Gaio Licinio Verre, nella veste sacra di ospite, compì un ulteriore atto di rapacità.
La sovrapposizione, archeologicamente accertata, di vari strati edilizi (che testimoniano ristrutturazioni e riattamenti del manufatto in epoche diverse tra le quali devesi ritenere ricompresa quella relativa ai fatti riferiti da Cicerone), milita per supportare la conferma storica secondo cui all’epoca alla quale si riferisce Cicerone, ossia l’anno 71 a. C., la villa di cui ci stiamo occupando, esisteva ed era anche abitabile in quanto lo strato murario retrocalendabile al predetto anno 71, si trova ad essere intercluso da altri strati sovrapposti, sia di epoca precedente, che successiva.
Se così è, ed è molto probabile che sia così, possiamo pure immaginare che sulla porta di entrata della villa in rassegna, accanto al rituale saluto di benvenuto, “AVE”, stesse scritto il nome del proprietario:
“GNAEUS POMPEIUS” (qui fuit Philo).
da leggere
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TODARO G., Alla ricerca di Abaceno, Messina 1992.
“IIS Antonello”: progetto lettura con il testo Parallelo Sud (altro…)
Sarà visitabile fino a venerdì 20 dicembre la mostra di ceramiche dell’arch Koji Crisá, giovane…
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Consegnata l’auto in dotazione alla Polizia Municipale e acquistata nell’ambito del progetto “Spiagge Sicure”. (altro…)