Un Frank Drummer c’è in ogni paese. Emerge così all’improvviso, per un fatto di cronaca, ma mai nulla è a caso.
FRANK DRUMMER , così nell’Antologia di Spoon River Edgar Lee Masters lo dipinge
Out of a cell into this darkened space–
The end at twenty-five!
My tongue could not speak what stirred within me,
And the village thought me a fool.
Yet at the start there was a clear vision,
A high and urgent purpose in my soul
Which drove me on trying to memorize
The Encyclopaedia Britannica!
Gli uomini di Masters, non hanno un volto, sono semplici epitaffi, ma chiunque può riconoscersi o riconoscere in quei personaggi, le proprie ansie, le paure, ma anche il volto del vicino di casa, della persona alla quali offri un caffè, o peggio una birra al bar, quasi per esorcizzare che possa chiederti altro, perchè ne rammenti un’amicizia passata, una lite con il vicino, un viaggio, o che possa inchiodarti in un dialogo surreale, domandandoti cose alle quali non puoi rispondere, paraldnoti di una lettera mai arrivata, di un biosgno inesaudibile, di un diritto a lui negato, fissandoti con suoi occhi perduti.
Un Matto nel paese non si cura con una borsa di alimenti portata da un vigile a casa, nè facendo roteare manette o un foglio, quello terribile, del TSO.
Un Matto non si cura mettendo una fascia, anche se tricolore, o aspettando che faccia il gesto eclatante, da codice penale, per poter portar via, risolvendo così il problema, o almeno tamponandolo.
Un Matto, e ogni paese ne ha uno, si cura con gli interventi preventivi, con le attenzioni psico-sociali, con il “cuore” dell’attenzione.
“Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole”.
Cantava Fabriazio De Andrè nella sua rifatta, e splendida, Antologia di Spoon River.
Quante volte ci siamo trovati a gestire questa sensazione?
A condannare il Matto della canzone non è l’impossibilità di comunicare.
Al contrario, questa difficoltà avrebbe potuto essere un’occasione di redenzione, la chiave d’accesso alla libertà, se solo fosse stato in grado di accettare la sua condizione, di sopportare l’isolamento e lo scherno come conseguenze della sua diversità.
“Gli altri sognano se stessi
e tu sogni di loro”.
E rincorrendo gli altri, è proprio se stesso che perde, ma noi – silenti osservatori, consapevoli del nostro star zitti – perdiamo lo stesso.
Sconfitti di non aver trovato le parole adatte per indicargli la Cura.
L’episodio di Giovanni a Sinagra, è da generalizzare e ci riporta al dibattito su come e cosa fare, prima che accada.
Sul ruolo di assistenti sociali, che a volte, diventano semplici impiegati burocratici che timbrano il cartellino, che non escono sul territorio, che non lo conoscono, che, in maniera assurdamente pratica, diventano utili quando sottoscrivono gli atti propedeutici affinchè la “politica” possa elargire contributi ad personam.
Dibattere sui ruoli dei presìdi sul territorio, quando ci sono. Aiutarli a crescere, prendere esempio da chi li attiva e li fa funzionare.
Un Matto c’è in ogni paese ed è lo specchio di un mondo che ha perso la dimensione collettiva del senso della vita, la dimensione comune del senso dell’esistere, di un paese destinato a veder consumarsi in piccole tragedie personali.
Un Matto c’è in ogni paese
E De Andrè lo cantava anche così:
Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro
E sì, anche tu andresti a cercare
le parole sicure per farti ascoltare:
per stupire mezz’ora basta un libro di storia,
io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto,
continuarono gli altri fino a leggermi matto.
E senza sapere a chi dovessi la vita
in un manicomio io l’ho restituita:
qui sulla collina dormo malvolentieri
eppure c’è luce ormai nei miei pensieri,
qui nella penombra ora invento parole
ma rimpiango una luce, la luce del sole.
Le mie ossa regalano ancora alla vita:
le regalano ancora erba fiorita.
Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina
di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina;
di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia
“Una morte pietosa lo strappò alla pazzia”.
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