Anche questo accade, ma poco se ne parla. E’ più facile parlare del “grandefratello” dei “bungabunga” e mai di pagine di storia che servirebbo, soprattutto ai giovani, per capire cosa sono stati gli anni settanta in Italia.
Lollo e’ stato condannato a 18 anni di reclusione ma è intervenuta la prescrizione.
Gli atti relativi alla sua convocazione in procura sono stati comunque secretati.
“L’interrogatorio si e’ svolto regolarmente e ha avuto la durata di 45 minuti. A seguito della secretazione disposta dal pm Luca Tescaroli, non è possibile rilasciare alcuna dichiarazione”.
Lo ha detto l’avvocato Tommaso Mancini, difensore di Achille Lollo, l’ex esponente di Potere Operaio sentito dal magistrato in relazione alla strage di Primavalle.
ALEMANNO: IL SILENZIO DI LOLLO E’ L’ENNESIMO SFREGIO AI MATTEI
Il silenzio di Lollo davanti ai magistrati della Procura di Roma e’ “l’ennesimo sfregio alla memoria delle vittime del rogo di Primavalle e alla dignità della famiglia Mattei”.
Lo dice il sindaco di Roma, Gianni Alemanno.
Dopo la chiamata in causa di altri militanti di Potere Operaio nella organizzazione del raid contro la famiglia Mattei, ci si aspettava da Lollo finalmente una conferma alle sue rivelazioni sugli appoggi e sulle coperture che furono accordate al gruppo degli esecutori materiali della strage.
POLVERINI: SPERO CHE LA MAGISTRATURA VADA AVANTI
“Nonostante la reticenza di Achille Lollo nell’interrogatorio di oggi, mi auguro che la magistratura vada avanti per fare chiarezza una volta per tutte su uno dei piu’ tragici episodi della stagione degli anni di piombo”.
E’ quanto dichiara il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, commentando l’interrogatorio avvenuto oggi di Achille Lollo, uno dei responsabili del rogo di Primavalle del 1973.
“Anche se sono passati molti anni – sottolinea Polverini – non e’ troppo tardi per fare luce sulle responsabilita’ di quei fatti che hanno provocato morte e disperazione.
Il silenzio di Lollo ci offende tutti.
Chiedere una risposta su quel tragico rogo e’ un diritto dei familiari delle vittime, è un dovere di tutte le istituzioni”.
I fatti di Primavalle
Con “Rogo di Primavalle” si indica un evento delittuoso di natura politica, compiuto da militanti di Potere Operaio, accaduto nel quartiere di Primavalle a Roma nel 1973, a seguito del quale persero la vita due giovani di 10 e 22 anni, figli di Mario Mattei, segretario della Sezione di Primavalle del Movimento Sociale Italiano.
Nella notte del 16 aprile 1973 alcuni aderenti all’organizzazione extraparlamentare di estrema sinistra Potere Operaio versarono benzina sotto la porta dell’appartamento abitato dalla famiglia composta da Mario Mattei, dalla moglie Annamaria e i figli, al terzo piano delle case popolari di via Bernardo da Bibbiena.
Mattei era allora il Segretario della Sezione Giarabub del Movimento Sociale Italiano, in via Svampa a Primavalle.
Divampò un incendio che distrusse rapidamente l’intero appartamento.
La madre Annamaria e i due figli più piccoli, Antonella di 9 anni e Giampaolo di soli 3 anni, riuscirono a fuggire dalla porta principale.
Altre due figlie si salvarono: Lucia, di 15 anni, aiutata dal padre Mario si calò nel balconcino del secondo piano e da li si buttò, presa al volo ancora dal padre.
Silvia, 19 anni, si gettò dalla veranda della cucina e riportò incredibilmente solo qualche frattura.
Due dei figli, Virgilio di 22 anni, militante missino nel corpo paramilitare dei Volontari Nazionali, e il fratellino Stefano di 10 anni morirono carbonizzati, non riuscendo a gettarsi dalla finestra.
Il dramma avvenne davanti ad una folla che si era accumulata nei pressi dell’abitazione, e assistette alla progressiva morte di Virgilio, rimasto appoggiato al davanzale, e di Stefano, scivolato all’indietro dopo che il fratello maggiore che lo teneva con sè perse le forze.
« Il 16 aprile 1973 arrivai con una troupe poco dopo l’allarme, dato alle quattro del mattino. Vidi il corpo carbonizzato del figlio maggiore di Mattei, Virgilio, ricurvo sulla ringhiera del balcone come un’orrenda coperta nera. Alle sue spalle c’era il cadavere del fratellino Stefano, dieci anni, bruciato anche lui. Il resto della famiglia s’era salvato, a prezzo di ferite gravi, gettandosi dal terzo piano »
(Bruno Vespa nel suo libro “Rai, la grande guerra” rievoca l’orrendo spettacolo del Rogo di Primavalle)
Gli attentatori lasciarono sul selciato una rivendicazione della loro azione: “Brigata Tanas – guerra di classe – Morte ai fascisti – la sede del MSI – Mattei e Schiavoncino colpiti dalla giustizia proletaria”.
Le indagini di Potere Operaio
Il vertice di Potere Operaio ebbe subito l’intuizione sullo svolgimento dei fatti. Valerio Morucci in un suo libro ha descritto come il vertice del movimento ebbe conoscenza precisa del fatto.
Furono interrogati i presumibili autori che negarono in maniera non convincente. Fu incaricato Valerio Morucci di accertare l’effettivo svolgimento.
In “Ritratto di un terrorista da giovane” 1999 di Morucci (che in seguito entrerà nelle Brigate Rosse) lo stesso parla di un “interrogatorio” che tenne all’epoca pistola alla mano onde “esortare” uno dei supposti colpevoli a farsi avanti ed ottenendo un’ammissione di responsabilità da parte di Marino Clavo.
Le indagini della magistratura
Le indagini seguirono piste collegate all’extraparlamentarismo di sinistra, in particolare vennero indagati esponenti di movimenti collegati a Potere Operaio che ribatté pubblicamente parlando di “montatura poliziesca”.
Il 18 aprile 1973 fu arrestato Achille Lollo come presunto responsabile; avrebbe scontato 2 anni di carcere preventivo. Furono poi rinviati a giudizio, per strage: Achille Lollo, Marino Clavo, Manlio Grillo.
L’ipotesi della faida interna e gli scontri durante le udienze
Fu redatto un opuscolo denominato “Controinchiesta”, in cui la colpa fu attribuita a una faida interna tra esponenti di destra.
Nel libro : “Collettivo Potere Operaio. Primavalle: Incendio a porte chiuse. Giulio Savelli, 1974”, nella nota dell’editore nella prima pagina ed al secondo paragrafo, si scrive: « La montatura sull’incendio di Primavalle non si presenta come il risultato di un meccanismo di provocazione premeditato a lungo e ad alto livello, tipo «strage di stato», «Primavalle» è piuttosto una trama costruita affannosamente, a «caldo» da polizia e magistratura, un modo di sfruttare un’occasione per trasformare un “banale incidente” o un oscuro episodio – “nato e sviluppatosi nel vermiciaio della sezione fascista del quartiere” – in un’occasione di rilancio degli opposti estremismi in un momento in cui la strage del giovedì nero con l’uccisione dell’agente Marino – avvenuta a Milano 3 giorni prima – ne aveva vanificato la credibilità. »
Molti gli intellettuali ed i giornali che si schierarono per difendere gli imputati. Tra i più autorevoli quotidiani a prendere queste posizioni ci fu Il Messaggero, il più diffuso quotidiano di Roma, il cui editore Alessandro Perrone era il padre di Diana Perrone, lei stessa militante di Potere Operaio e successivamente coinvolta nelle indagini. Franca Rame, allora esponente dell’Organizzazione Soccorso Rosso Militante, in una lettera datata 28 aprile 1973 scrive al Lollo Ti ho inserito nel Soccorso rosso militante. Riceverai denaro dai compagni, e lettere, così ti sentirai meno solo. Al di fuori del Tribunale di Roma, durante le udienze ci furono manifestazioni della sinistra che chiedevano il proscioglimento dei tre militanti di Potere Operaio.
Alla campagna innocentista in favore dei tre indagati contribuirono anche alcuni autorevoli personaggi della sinistra quali il senatore comunista Umberto Terracini (già presidente dell’Assemblea Costituente e uno dei tre firmatari della Costituzione italiana), il deputato socialista Riccardo Lombardi (gà membro anch’egli Assemblea Costituente e capo storico della corrente “autonomista” del suo partito) e lo scrittore Alberto Moravia[5].
Il 28 febbraio 1975, alla fine della quarta udienza del processo, vi furono scontri tra simpatizzanti di destra e di sinistra, lo studente greco Mikis Mantakas, simpatizzante del FUAN-Caravella, venne ucciso a colpi di pistola da estremisti di sinistra in via Ottaviano, vicino al Palazzo di Giustizia.
I processi
Furono rinviati a giudizio Achille Lollo, Marino Clavo, Manlio Grillo.
Processo di primo grado
Il processo di primo grado iniziò il 24 febbraio 1975, a quasi due anni dal rogo. In stato di detenzione Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo latitanti. Durò più di tre mesi, tra violente manifestazioni della sinistra extraparlamentare che, al grido di “Lollo libero”, sostenne i tre. Inizialmente l’accusa ipotizzata fu di strage e la pubblica accusa richiese la pena dell’ergastolo. Si concluse con l’assoluzione per insufficienza di prove degli imputati dalle accuse di incendio doloso e omicidio colposo.
Processo di secondo grado
In secondo grado, Achille Lollo, Marino Clavo, Manlio Grillo, furono condannati a 18 anni di carcere per omicidio preterintenzionale. Lollo, rilasciato in attesa di processo d’appello, riparò in un paese del Sud-America con il quale riteneva l’Italia non avesse trattati di estradizione, che invece vi erano, ma in realtà poté restarvi poiché per la legge brasiliana il reato era prescritto a causa del lungo tempo ormai trascorso al momento della domanda di estradizione. Manlio Grillo si rifugiò invece in Nicaragua grazie alla complicità, di cui aveva goduto anche il Lollo, di Oreste Scalzone. Marino Clavo tuttora non risulta rintracciabile.
La prescrizione
La pena è stata dichiarata estinta dalla Corte d’appello di Roma per intervenuta prescrizione, su istanza dell’avvocato Francesco Romeo, difensore di Marino Clavo.
Ciò è stato possibile per il tipo di condanna applicata in secondo grado, come lamentato da Ignazio La Russa. Anche Walter Veltroni, sindaco pro tempore di Roma al momento della notizia della prescrizione, emise una dichiarazione assai critica.
Verso una riapertura del Caso
Nel 2005 ci sono state varie interviste che hanno portato a una riapertura dei fascicoli.
il 10 febbraio il “Corriere della Sera” pubblicò un’intervista ad Achille Lollo in cui questi ammise la colpevolezza propria e degli altri due condannati insieme a lui, aggiungendo molti particolari.
Il maggior elemento di novità fu l’affermazione che a partecipare all’attentato furono in sei, i tre condannati più altri tre di cui Lollo fece i nomi: Paolo Gaeta, Diana Perrone e Elisabetta Lecco. Inoltre ammise di aver ricevuto aiuti dall’organizzazione per fuggire. Lollo ha vissuto in Brasile dove si è dichiarato rifugiato politico (status non riconosciuto dalle autorità locali).
il 12 febbraio Oreste Scalzone, a quel tempo dirigente di Potere Operaio, rilasciò sul caso una intervista a RaiNews24 in cui dichiarò di aver aiutato due colpevoli a fuggire.
il 13 febbraio Franco Piperno, all’epoca dei fatti Segretario nazionale di Potere Operaio, in una intervista su la Repubblica confermò anch’egli che il vertice di Potere Operaio fu informato di tutto, seppur solo dopo i l’avvenimento dei fatti.
Il 17 febbraio anche Manlio Grillo ammise per la prima volta in una intervista pubblicata su La Repubblica, nelle modalità indicate nella sentenza di condanna, senza modifiche, la propria responsabilità. Ammise anche aiuti dall’organizzazione per fuggire. Nell’ottobre del 2006 affermerà che la cellula terrorista di cui faceva parte era legata alle Brigate Rosse.
Lanfranco Pace, a quel tempo dirigente di Potere Operaio a Roma, ha risposto anch’egli a domande in una intervista.
La riapertura: reato di Strage
La vicenda è tornata alla ribalta poiché la Procura di Roma ha recentemente riaperto il caso avendo assunto nozione di nuovi dettagli (appresi da dichiarazioni degli imputati) che consentirebbero di richiedere la revisione del processo ipotizzandosi ora un reato di strage.
Paolo Gaeta, Diana Perrone e Elisabetta Lecco sono stati iscritti dalla procura di Roma nel registro degli indagati per strage, e per tale reato non si applica la prescrizione.
Nel 2005 la famiglia Mattei ha sporto denuncia indicando quali mandanti dell’attentato Lanfranco Pace, Valerio Morucci e Franco Piperno.
Fra le dichiarazioni che questi rilasciarono in quell’anno emergono elementi che fanno sembrare molto probabile che essi sapessero molto e che il depistaggio sia stato voluto.
Tutti gli organizzatori, esecutori e comprimari della strage finora identificati sono a piede libero e taluni svolgono compiti di rilievo nell’informazione pubblica e della pubblicistica (Pace, Morucci, Piperno, Scalzone, Grillo); altri non sono rintracciabili (Clavo).
TELESE LUCA CUORI NERI. DAL ROGO DI PRIMAVALLE ALLA MORTE DI RAMELLI, 21 DELITTI DIMENTICATI DEGLI ANNI DI PIOMBO
Io non so dimenticare / la mia rabbia e la vergogna / nel vedere un ragazzino / che era già messo alla gogna / per aver voluto dire / “Io non posso dimenticare / un passato dignitoso / per il quale provo onore” / E veniva trascinato / per i corridoi di scuola / col cartello appeso al collo / con su scritta una parola / che per noi voleva dire / uno con un ideale / ma per tutto quanto il mondo / era il simbolo del male / E noi siamo ancora qui / per ricordare / e noi siamo ancora qui
per chi vuol dimenticare / Io non posso più scordarmi / del suo corpo sul selciato / e del fiore che sbocciava / dal suo sangue raggrumato / e un bastardo giornalista / preparava già una storia / dalla trama un po’ già vista / per sporcarne la memoria / tanto da arrivare a dire / che era stato un suo fratello / a sparargli nella nuca / profittando del bordello / per far ricader la colpa / su quei poveri compagni / vittime senza giustizia / del fascismo e dei suoi inganni / Ma noi siamo ancora qui / per ricordare / e noi siamo ancora qui / per chi vuol dimenticare / Io non chiedo la vendetta / non mi aspetto trasparenza / questa terra benedetta / non conosce la giustizia / Voglio solo ricordare / senza scomodare i morti / ma che almeno i nostri figli / non conoscano quei torti / E noi siamo ancora qui / per ricordare / e noi siamo ancora qui / per chi vuol dimenticare / Per mille e mille / e mille e mille anni… NON SCORDO (270 bis)
UNA DOLOROSA PREMESSA PERSONALE
È per me difficile, appena dopo aver chiuso il libro di Luca Telese, con le foto dei tanti ragazzi di destra morti negli “Anni di Piombo” sotto gli occhi, avendo voluto ascoltare Non scordo dei 270bis per evocare quell’emozione che ogni volta mi tocca nell’intimo, nel profondo, argomentare lucidamente su fatti, eventi e personaggi contenuti in Cuori Neri.
Nel farlo, avendo deciso di farlo, sentendo forte la necessità di far conoscere a chi del tutto ignora, riscoprire a chi ha dimenticato, è giusto che dichiari brevemente – ma per intero – la mia provenienza, le suggestioni che mi hanno fatto scegliere, ancor giovane, ma in un tempo meno crudele, la militanza a destra, nel Fronte della gioventù. I miei, anni che preludevano alla trasformazione da M.S.I in A.N., sono stati anni tranquilli e, sinceramente – nonostante “l’epocale” trasformazione del partito –, vissuti senza grande slancio ideale.
Eppure, per chi come me viene da una famiglia missina, fascista, senza sé e senza ma, lo slancio ideale era tutto – nulla poteva contar di più – nello scegliere di spendersi in politica. All’inizio dei Novanta, tempo in cui si colloca il mio approccio al Fronte della gioventù, nell’organizzazione giovanile missina, che ha sempre rivendicato una certa autonomia nei confronti del partito (nei fatti mai totalmente ottenuta), quei ragazzi, le cui foto sono state dimenticate dalla quasi totalità degli italiani, costituivano un esempio, un invito a spendersi, a scegliere di far politica per non lasciare che quel sacrificio fosse stato vano. Ad oggi, tempo nel quale in pochi anni la politica è vertiginosamente cambiata rispetto a quindici anni fa, quei morti sono uno dei pochi collanti che restano tra i giovani della destra istituzionale e quelli della destra radicale. Quei morti, e so che qui in molti a destra inorridiranno (sia in quella istituzionale che in quella radicale), sono un cordone ombelicale di cemento, l’unica cosa che ancora può unire – almeno emotivamente e emozionalmente – chi ha fatto una scelta di allontanamento totale dalla propria storia (A.N.), dai i principi che hanno animato molti dei loro fratelli del tempo che fu, e coloro i quali, spesso confusamente, hanno scelto vie alternative, fondando nuovi partiti e organizzazioni politiche a destra della destra istituzionale. Quei morti, fatti martiri, vivono nell’immaginario e nell’emozione di chi li ha più volte omaggiati nei rituali commemorativi (ilPresente!), oltre il loro martirio, hanno una valenza simbolica che sorpassa le barriere della comunità politica d’appartenenza per provare ad insinuare, nell’immaginario e nella consapevolezza di chi ignora o ha dimenticato, nell’Italia tutta, almeno il dubbio che questo sia un paese ancora lontano dall’avere una storia comune condivisa, una giustizia equa, un senso identitario che oggi non conosce e che, forse, non ha mai conosciuto. Quei morti, almeno per chi non si rassegna all’oblio della memoria e ad un paese dai colori quanto mai indefiniti, per chi non si rassegna ad essere una sottocultura, un sottoprodotto degli U.S.A nel mondo sempre più globalizzato, sono ancora un invito a lottare per le proprie idee – o, sarebbe meglio dire, usando un termine che sembra tristemente obsoleto, per i propri ideali.
I CUORI NERI: TRA ODIO, INDIFFERENZA, VENDETTA, RICORDO DEI POCHI E OBLIO DELLA MEMORIA.
A molti, troppi di voi, questi nomi di cui parla Telese non diranno nulla, non susciteranno alcuna particolare emozione, se non la curiosità. Ad altri di voi insinueranno certamente odio e disprezzo, nonostante la loro tragedia personale. Per alcuni di noi, come ho tenuto a rimarcare nella premessa, sono un patrimonio di idee, memoria, orgoglio, identità e onore che non si può spiegare facilmente.
No, non siamo necrofili né nostalgici, come qualcuno immagina, né ancorati ad una idea di politica – di lotta politica – che (solo per alcuni versi: il rischio della vita, appunto) è bene che si sia del tutto estinta, ancorché l’odio serpeggi ancora, più di ciò che generalmente si pensa. Telese ci introduce alla vicenda personale, inquadrandola storicamente, di 21 (quasi tutti ragazzi ) morti a destra negli anni di piombo; comincia con l’operaio trentenneVenturini (18 Aprile 1970) e conclude con il giovane studente Paolo DiNella (2 Febbraio 1983), passando per Falvella, i fratelli Virgilio e Stefano Mattei, Ramelli, Zicchieri, la strage di Acca Larentia eNanni De Angelis. Ma ci sono anche Zilli, Giralucci e Mazzola, lo studente greco Mantakas, Cecchetti (l’unico che sembra non avesse nulla a che spartire con la politica), Pedenovi, Pistolesi, Giaquinto,Cecchin e Mancia. Nomi, come detto, che forse ricorderanno qualcosa a chi ha più di quarantacinque anni, del genere: ma io questo nome l’ho già sentito. E poi, una volta capito di chi si tratta, magari chiudono con: ah, era un fascista… Amen, e nemmeno sempre.
A volte nemmeno quello.
Nessun vittimismo cari lettori, e Telese lo lascia ben emergere dalle pagine del suo libro, quello era il tempo in cui c’era uno slogan che non era un semplice slogan: uccidere un fascista non è reato. E nei fatti si rivelò esattamente cosi perché non solo non fu reato – in sostanza – uccidere un fascista per la sinistra extraparlamentare, ma non lo fu nemmeno per lo Stato, che sparò più di una volta ad altezza uomo colpendo ragazzi inermi. Le storie tragiche di Recchioni e Giaquinto dovranno pure dir qualcosa a chi si trova a leggerle, la vicenda dolorosa e inquietante di cui fu vittima Nanni De Angelis dovrà pure creare un moto di indignazione nelle coscienze di chi si trova tra le mani il testo di Telese. Compagni impuniti, lo Stato che ti spara in testa o ti “suicida” in una cella, fosse questo il culmine dell’orrore e dell’atrocità ci limiteremmo alla pura indignazione, a trent’anni di distanza (perché al tempo l’indignazione sarebbe stata evidentemente risposta minima e insufficiente). L’indignazione diventa odio e rifiuto del paese in cui si vive, in cui hanno vissuto questi ragazzi, quando si legge una storia come quella di Sergio Ramelli. E sulla storia di Sergio Ramelli, diciottenne milanese ucciso barbaramente sotto casa con un colpo di chiave inglese alla testa, ma morto dopo un’agonia di più di trenta giorni, mi voglio soffermare un attimo a spiegarvi meglio. Voglio farvi capire cosa erano quegli anni per un militante di destra, cosa poteva subire in una scuola, da alunni, professori e professoresse, nell’indifferenza di tutti, e nella codardia di chi poteva e doveva proteggere. La storia di Sergio Ramelli ci porta in un mondo altro, a solo trent’anni di distanza da oggi (incredibile!), ci dà la misura di come in Italia, in quegli anni, si sia vissuta la più disumana e insensata “tragedia democratica” in tempo di pace che l’Europa abbia conosciuto dal secondo dopoguerra ad oggi:
Un paio di mesi prima di morire, Sergio Ramelli entrò nella sede milanese del M.S.I. in via Mancini. Non è il classico modello antropologico dei ragazzi di destra del tempo, ha i capelli lunghi fin sulle spalle e per ciò stesso all’inizio insinua qualche dubbio (come ricorda anche Telese,Pasolini non aveva tutti i torti nel notare che i modelli antropologici dei ragazzi andavano sempre più sfumando verso qualcosa di indistinto – Pasolini odiava i capelli lunghi, come afferma nelle Lettere luterane, documento importante per capire quegli anni).
Al tempo si temevano gli infiltrati, le pareti delle sezioni sono rinforzate con lastre d’acciaio murate e infissi blindati, il sospetto è all’ordine del giorno. Riccardo De Corato, futuro vicesindaco di Milano, allora segretario del Fronte della gioventù milanese, rassicura tutti sulla affidabilità di Sergio: il ragazzo è il fiduciario del Fronte alla scuola Molinari. Ed è proprio qui, a scuola, dove pensi che tuo figlio cresca sano libero e socializzante che inizia a consumarsi il dramma di Sergio. Tutto comincia da un compito in classe, un tema d’attualità, in cui il ragazzo espone tutto il suo sdegno nei confronti delle Brigate Rosse, ricordando tra le altre cose l’omicidio di Mazzola e Giralucci (altri due “cuori neri”, altra vicenda trattata da Telese nel libro). Il suo tema non arriverà neanche ad essere letto da chi di dovere, ma verrà esposto nella bacheca dell’atrio della scuola, con su scritto: “ECCO IL TEMA DI UN FASCISTA”. Da quel giorno in poi persecuzioni e umiliazioni saranno all’ordine del giorno, nell’indifferenza dei professori (tra i quali, come leggerete, si opporrà solo quello di lettere, Giorgio Melitton: insegnante di sinistra, il quale, sentendo di non esser riuscito ad opporsi come doveva alla triste sorte di Sergio, dopo la morte del ragazzo scriverà un libro per onorarne la memoria, Per memoria di Sergio Ramelli – prosa e canto) e il sadismo degli studenti (era una scuola, il Molinari, quasi totalmente di sinistra). Di più, alcuni professori di sinistra avallano la violenza subita da Sergio (è fascista, basta questo), fino a dare una spiegazione-giustificazione della morte. Ramelli, come detto, morì dopo una lunga agonia, dopo essere stato colpito sotto casa alle spalle: sul marciapiede, accanto al suo motorino, stava agonizzando circondato da pezzi di materia cerebrale spazzati via dai colpi di chiave inglese.
So che è sconvolgente, so che alcuni di voi ignorano o vogliono ignorare, ma leggete. Telese fotografa bene il tempo dell’odio, un odio certo anche restituito, ma è bene sapere che la misura in cui subirono i ragazzi di sinistra negli anni di piombo è nulla in confronto a ciò che ha vissuto un mondo, quello dei giovani del Fuan e del Fronte, in quel periodo terrificante.
Avevano tutti contro, magistratura, forze dell’ordine, intellettuali, giornalisti e per ultimo, ma certamente non ultimo, lo Stato. Quelli furono gli anni in cui si raccoglievano le firme perché l’M.S.I. fosse messo fuorilegge: Almirante viveva tra l’incudine e il martello, da un lato le istituzioni vogliono cancellare l’M.S.I, dall’altro il mondo giovanile di destra si sente sempre più abbandonato dal suo leader, considerato lontano dall’idea rivoluzionaria e dal volerli realmente proteggere. Almirante, difatti, sta cercando di allargare l’orizzonte della destra, pescando al centro, tra i monarchici, tra i liberali (quello che farà in una maniera molto simile, e quindi non inventando nulla, Gianfranco Fini, delfino di Almirante e attuale presidente di A.N.), cosi da far considerare la sua politica d’allora, tra i giovani dell’ambiente, “la politica del doppiopetto”. In sostanza, un’evoluzione quantomai borghese, mentre la guerra civile divampa, quando il rischio di incolumità fisica per chi fa politica nelle sezioni del F.d.g. è concreto.
Nella seconda parte dei Settanta tutto diventa più duro e complicato, le B.R. sono una realtà concreta, Prima Linea è altrettanto pericolosa, Lotta Continua non si stanca di ribadire, dalle colonne del suo giornale, che per i fascisti non esiste pietà. Nella seconda parte dei Settanta la scia di sangue che colpisce i giovani missini si sposta dal Nord Italia a Roma. Il 29 ottobre del 1975, nella Capitale, a soli sei mesi dall’atroce delitto Ramelli, si consuma un’altra tragedia, viene ucciso, alla Garbatella, proprio davanti alla sezione in cui militava, il giovanissimo Mario Zicchieri (proprio mentre stava ciclostilando un volantino in memoria di Sergio Ramelli), conosciuto dai suoi camerati come Cremino (amava quel gelato, si dice). Ecco uno stralcio del volantino, dal libro di Telese: “Dopo l’assassinio di Ramelli. Il regime dell’odio, della violenza e della guerra civile ha stabilito che se un ragazzo di 19 anni, militante di destra, muore massacrato da 20 democratici comunisti non ha diritto: ad uno sciopero – perché neofascista, ad una trasmissione Rai – perché neofascista, ad un corteo – perché neofascista, alla ricerca dei colpevoli – perché neofascista, ad un pubblico funerale – perché neofascista. Sergio Ramelli, ucciso a Milano, usciva da casa coi libri sottobraccio, non diventerà un martire per questo mafioso regime, ma uno scomodo peso su cui si stenderà il solito ignobile silenzio! Un silenzio che dovrà accompagnare Sergio anche all’ultima ora, un silenzio che non turbi i compromessi storici e morali con cui è governata l’Italia…”.
L’apice della tragedia, ciò che scioglierà gli ultimi dubbi di intervento del cosi detto “spontaneismo armato”, si avrà però sempre a Roma, nella nota strage di Acca Larentia (7 Gennaio 1978, il delitto più noto, tra quelli contenuti nel testo, insieme al rogo di Primavalle), in cui vennero uccisi, in una sequenza di circostanze inquietanti, tre ragazzi in due giorni, due dai compagni extraparlamentari ed uno dallo Stato. Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, due militanti della sezione missina Acca Larentia (zona Appio Latino), vennero freddati dai colpi di una mitraglietta Skorpion e di più calbro 9 a canna corta, da una delle tante sigle della lotta armata a sinistra. Orrore, cordoglio della comunità politica d’appartenenza (come al solito solo di quella), rabbia e propositi di vendetta. Propositi di vendetta che aumentano nelle ore successive, allorché la rabbia dei militanti di destra si manifesta su tutto ciò che trova (macchine parcheggiate, vetrine dei negozi), e le forze dell’ordine intervengono numerose.
Alla tragedia si aggiunge tragedia: Stefano Recchioni, giovane militante della sezione Colle Oppio, è intervenuto, insieme agli altri camerati romani, per presidiare la zona, a proteggere l’intimità del momento, il desiderio di una comunità di stringersi a caldo nel luogo del lutto, intorno al lago di sangue che colora il selciato, proprio davanti alla sezione.
Nella concitazione, il capitano Eduardo Sivori, un carabiniere, punta una pistola ad altezza uomo, preme il grilletto, Stefano Recchioni cade, colpito in mezzo alla fronte, senza scampo. Francesco era li, inerme, affatto armato: è un punto di non ritorno. Giuseppe Valerio (detto Giusva: era stato un bimbo attore prodigio) e Cristiano Fioravanti, Francesca Mambro (che era accanto a Stefano nel momento in cui fu ucciso dal carabiniere, e che in carcere diventerà moglie di Giusva), Franco Anselmi (che morirà freddato dalle forze dell’ordine durante una rapina per procurarsi armi), più altri giovani perlopiù provenienti da una sezione di Monteverde, decideranno che non è più possibile stare a guardare, che è venuto il tempo della vendetta.
Di li a poco sorgeranno i N.A.R. (Nuclei Armati Rivoluzionari), tutti ragazzi giovanissimi, che troveranno proprio in Giusva il loro leader, compiendo azioni contro i compagni (senza far troppe distinzioni tra extraparlamentari e non, bastava incarnassero il modello antropologico corrente) e soprattutto contro lo Stato. La sanguinosa parabola dei N.A.R. si concluderà con parecchi morti sulla coscienza (anche camerati considerati traditori) e con una serie infinita di condanne, compresa, per alcuni di loro, la famosa strage dell’Italicus, a Bologna. Ancora oggi pende su di loro quell’accusa, ma è a tutti evidente (ci sono comitati trasversali composti da noti esponenti di destra e di sinistra) che delle tante colpe ascrivibili ai Nuclei Armati Rivoluzionari questa è la più infondata che resiste: si è voluto trovare un facile capro espiatorio per una strage che ha segnato l’Italia, mettendo in dubbio tutte le “certezze democratiche” del tempo.
Sono anni in cui la mano nascosta dei servizi segreti si insinua sempre più, anni in cui il Partito Comunista Italiano sembra poter rovesciare il dominio democristiano, anni in cui il Sistema ha paura di sconvolgere la sua monolitica architettura, perdendo il potere accumulato negli anni. E allora, cosa c’è di meglio che innescare, favorire, dirigere (sotterraneamente, con mano invisibile) una vera e propria guerra civile, cosi da distogliere, ancora una volta, l’interesse dalle malefatte del potere democristiano?
Lo Stato colpisce e colpisce duro, non gli interessa, anzi è il suo scopo, creare martiri a destra e a sinistra, generare una scia di violenza e di vendetta, da stroncare col manganello e con le pallottole. Si, con le pallottole, come accade nel caso di Alberto Giaquinto (10 Gennaio 1979), freddato alle spalle da una “guardia” in borghese, cercando di far sembrare il tutto un eccesso di legittima difesa. O col manganello e le botte, fino a ridurre il pur possente Nanni De Angelis (fratello di Marcello, notissimo nell’ambiente, cantautore-leader dei 270 bis, gruppo principe della musica alternativa), giovane esponente di Terza Posizione (un gruppo formatosi in quegli anni nella galassia di destra su basi simbolico culturali del tutto nuove ed anche interessanti), in fin di vita, “suicidandolo” successivamente in una cella.
Dal rogo di Primavalle, orribile scenario in cui si consuma uno dei più efferati e impuniti delitti dell’Italia repubblicana (l’evoluzione del caso è recentissima), a Nanni De Angelis c’è una lunga scia di sangue che Telese ben documenta con spirito da cronista puro, raccogliendo aneddoti e testimonianze, riportando stralci di giornali d’epoca e dichiarazioni allucinanti di tanti volti allora poco noti ed ora nei posti di potere di giornalismo ed editoria (basti pensare che in Lotta Continua e Potere Operaio gravitavano personaggi come Gad Lerner, Lanfranco Pace, lo scrittore Erri De Luca, Giampiero Mughini, Paolo Liguori, il parlamentare verde Marco Boato e tanti altri che non mi va più di elencare, tanto è il disgusto). Scia di sangue che dopo gli ultimi deliri del 1980 sembrano arrestarsi, salvo ritrovarsi, nel 1983, in pieno riflusso degli Anni di Piombo, ancorché con parecchi processi ancora in corso ed altri immotivatamente archiviati, con un altro morto.
Ancora un ragazzo, ancora un fascista, un ragazzo della giovane destra che, insieme ad un’amica, era andato ad attaccare dei manifesti per riqualificare l’ambiente proponendo la riapertura di Villa Chigi, zona Quartiere africano, luogo frequentato al tempo solo da “tossici” in cerca di una “pera tranquilla”. La sua, l’ultima morte degli Anni di Piombo, sarà, tanto per suggellare un periodo d’orrore irripetibile, una delle più atroci. Anche qui una botta in testa, un’agonia di più giorni, una giovane vita spezzata per un’ideale, questa volta ecologista (ma di destra!). Ma adesso qualcosa cambia, forse il tempo è maturo, arriva addirittura il Presidente della Repubblica (il partigiano Sandro Pertini) al capezzale del ragazzo in coma, l’opinione pubblica è sconvolta, ci sarà condanna unanime. L’ultima tragica costante che resta è l’impunità dei colpevoli.
TUTTI COLPEVOLI, O QUASI
Esposte a grandi linee le tragiche vicende, non resta che porsi una domanda quanto mai essenziale: chi sono i colpevoli dell’orrore che Telese ci ha raccontato?
L’autore non si sbilancia, ma non può non far trasparire, a volte stigmatizzando gli eventi in maniera sacrosanta, le colpe del Sistema, e non solo. Se si legge approfonditamente il testo in questione non si può essere indulgente con nessuno, o quasi.
È l’intero paese, l’intera nazione, l’Italia tutta che sale sul banco degli imputati. Ho approfondito il delitto terribile di Sergio Ramelli perché è l’emblema di un paese fazioso, gonfio d’odio e distratto, un paese pieno di cattivi maestri (e qui l’epitaffio calza a pennello, a ben guardare), se si considera che la violenza è spesso innescata da giornalisti e professori di scuola e d’università. E in più ci sono i sedicenti intellettuali, gli sgradevoli “artisti” che aprono bocca e sono più pericolosi delle P 38.
L’emblema di questa categoria è la famiglia Fò al completo, Franca (che spediva lettere in carcere agli assassini di sinistra chiedendo per loro giustizia e clemenza, sottintendendo che i fascisti non meritassero altro che la morte), Dario (il nobel più insulso della storia della letteratura) e il figlio Jacopo (che ebbe la vergognosa idea di scrivere un libro prosa e disegni in cui arrivò a sostenere – non dico ipotizzare, ma proprio sostenere – che il rogo di Primavalle sia stato un fatto interno alla destra, che addirittura Almirante fosse in combutta coi servizi segreti per trovare beneficio da quell’orribile morte). Disgusto, non si può provare che disgusto per questi personaggi, loro si da far sprofondare nell’oblio della memoria di una Patria degna di questo nome.
Colpevoli i giornali, colpevoli gli intellettuali, ma per molti ragazzi dell’ambiente sono colpevoli sia Almirante che gli organi rappresentativi dell’M.S.I. Il perché è presto spiegato, precedentemente anche accennato, considerando il moderatismo (che brutto termine, ma è calzante) cui andava sempre più incontro il partito. Almirante voleva incidere nella politica italiana, ma doveva far anche battaglia di retroguardia, essendo l’M.S.I a rischio scioglimento. I giovani missini, soprattutto coloro che sceglieranno vie alternative (come Terza Posizione), consideravano l’eredità del Fascismo un patrimonio da poter trasformare dinamicamente in qualcosa di più adatto al tempo che li accoglieva.
A fine Settanta fioriscono i Campi Hobbit, come ricorda Telese, campi comunitari (che in qualche modo ancora sopravvivono) organizzati dall’ala rautiana del partito: la mistica fascista lascia il campo alla fiaba magica piena di simboli e rimandi alla tradizione primordiale dell’ Europa, Tolkien diventa un riferimento fondamentale, si legge Evola, i poeti armati (Céline, Brasillach, La Rochelle), sboccia la musica alternativa che diventerà uno dei fenomeni aggregativi più importanti per i ragazzi della destra a venire.
Almirante, il vecchio partito, sono lontani da queste suggestioni, ma hanno anche il torto, agli occhi di chi è stanco di subire, di condannare il terrorismo nero in maniera anche maggiore di quello rosso (in quegli anni l’ M.S.I. fece la battaglia per la reintroduzione della pena di morte e Almirante andava ripetendo: “Pena di morte per i terroristi rossi, doppia pena di morte per quelli neri”). Ultimo colpevole, ma non ultimo per importanza, è lo Stato. Lo Stato è, nei fatti, anche quando non si macchia del delitto in prima persona, il vero mandante di ogni esecuzione (e anche se Telese ciò non lo dice mai, non scrive neanche nulla per far sembrare il contrario). Lo Stato alimenta la guerra civile, la “benedice”col suo silenzio, e su questa edifica la sua forza. Cossiga (soprattutto come Ministro dell’Interno) e Andreotti, per dirne due – i più evidenti – su tutti, sono coloro che sono messi costantemente all’indice, da una parte come dall’altra. Lo Stato è silente, dicevamo, quando non arriva a “sputare” sui morti di una parte, coi suoi modi e la sua dialettica “garbata” nelle aule parlamentari. Lo Stato è il soggetto che difende le forze dell’ordine quando si macchiano di assassini e abomini, e, sempre lo Stato, è rappresentato da una magistratura compiacente con i rossi, terribile e impietosa con i neri, innocenti o colpevoli che fossero.
PENSIERI DI FONDO
Telese lavora su una materia infuocata, pericolosa, cercando di mantenere l’equilibrio del cronista favorito dalla distanza dagli eventi. Lavora tre anni alla stesura del libro, raccoglie una mole incredibile di documentazione, girando in lungo e in largo il nostro “belpaese”, riassemblando il tutto seguendo una precisa sequenza temporale e – come più volte afferma nel testo – un filo rosso che (soprattutto oggi) è impossibile non trovare accostandosi a questi fatti. Certo, Telese non è di destra, al contrario di ciò che si può immaginare (oggi scrive sul Giornale, prima scriveva sul Manifesto e sull’Unità ed era vicino a Bertinotti), nemmeno moderata ed annacquata come quella odierna (ogni riferimento ad Alleanza Nazionale è puramente voluto), è giovane (ha 35 anni) e non lesina energie nell’immenso lavorone che ha scelto di portare a termine. Telese non è di destra ma è l’unico che, ad oggi, è riuscito a far un lavoro organico e affatto asettico su questo nostro mondo perduto (mai!) e dimenticato, cercando e sforzandosi di capire, se non di condividere, chi scelse di lottare da una parte sfortunata (ma orgogliosa) e ostracizzata della politica dell’Italia del dopoguerra. Gli hanno mosso anche parecchie accuse, non tanto da sinistra come si poteva presagire, ma da destra: toccare la memoria dei martiri di una parte che dell’identità ha sempre fatto la sua bandiera non è facile, è come entrare in un labirinto di cristalli molto angusto e sperare di lasciare tutto immacolato come lo si è trovato.
Cosi non poteva essere e non è stato, e se c’è una cosa che (da destra, da figlio cresciuto nel rituale di quei morti) mi sento di non condividere nell’impianto generale del testo, è come sono connotate – di fondo – le figure dei ragazzi, dei camerati caduti per un’idea.
Quell’idea, quel principio che trascende ogni ragione, era cosa di cui erano più che consapevoli; quel rischio che spesso a Telese è parso piovere dal cielo sulla teste delle vittime, è qualcosa che accompagnava intimamente anche i più piccoli di loro, in ogni istante della giornata.
Non erano vittime inconsapevoli, Telese, ma giovani guerrieri pronti a combattere, a difendere la loro visione del mondo, la loro speranza in un domani ritenuto migliore, possibile, da costruire. Le tanti madri del dolore, che dal libro emergono, più forti dei padri, spesso sopraffatti da quell’atroce destino, sono guerriere anch’esse. I protagonisti di queste vicende, i Cuori neri, tutta una comunità che è stata la vittima sacrificale degli Anni di Piombo, sull’altare di una democrazia (quantomai cristiana) risibile, oltraggiosa, violenta e ingannatrice, sono per tutti questi motivi italiani veri, italiani da ricordare.
A Roma, il 22 Maggio del 2005, è stata intitolata una via a Paolo Di Nella: finalmente un ragazzo di destra.
Erano insieme Veltroni e Alemanno (che fu carissimo amico di Di Nella).
Veltroni rimarca l’importanza e le motivazioni del gesto. Alemanno, nel 1989, alla trasmissione Telefono giallo (prima trasmissione su un giovane ucciso a destra), dirà: “Rossi, neri, estremisti di sinistra contro estremisti di destra.
L’Italia è rimasta sostanzialmente ferma per dieci anni grazie alla teoria degli opposti estremismi. L’unico grande vincitore, in virtù di questa logica, nella logica della guerra civile, è stato chi non voleva cambiare nulla. L’unico grande vincitore è stato chi voleva conservare tutto com’era, ha vinto il centro, ha vinto la Dc”.
Ma torniamo a cosa ha detto Veltroni, nell’occasione dell’intitolazione della via – tra le tante parole che dice c’è un concetto che non può lasciarmi indifferente, considerando chi lo esplica: “Roma ha voluto assumere la storia e il sacrificio di questo ragazzo. Il suo nome è consegnato all’eternità di questa città”.
Avete capito bene, si: “il suo nome è consegnato all’eternità di questa città”.
Non mi importa che queste parole siano state pronunciate da un sindaco ex comunista, e non voglio nemmeno pormi l’interrogativo sulla buona o cattiva fede, se siano state dettate dall’opportunità del momento o da altro, o se fossero realmente sentite.
Non mi importa, perché, leggendo queste parole, e rifacendomi alla mia storia personale (storia intima, esistenziale, che nella fattispecie trascende la politica abbracciando il concetto d’appartenenza), trovo che tutto ha un senso, scopro che il filo che mi unisce a questi fatti, a questo intimo sentire, a questo mondo, a questa comunità cosi poco conosciuta e spesso realmente inconoscibile se non da dentro, ha un senso.
I primi manifesti che la mia memoria di bambino ricorda sono proprio quelli del 1983, che tappezzavano Roma con il volto di un camerata caduto. Un ragazzo, un giovane, che mi si stampò nella memoria, che non sapevo ancora chi fosse e perché fosse stato ucciso, né immaginavo che un giorno – nemmeno troppo lontano da quello – l’avrei commemorato nel rituale del Presente!
Quel ragazzo, l’ultimo caduto di un tempo terrificante che in queste pagine intense Luca Telese ha ricordato, voleva che riaprissero Villa Chigi, che al posto dei tossici adagiati sul terreno in cerca di una quiete che conduce all’oblio, germogliassero i fiori in una distesa di verde. Non saprei dire se, ad oggi, tutto in Villa Chigi sia cosi puro come Paolo l’aveva sognato.
So solo che Villa Chigi vive, come Paolo vive nel ricordo di chi lo ha amato e di chi oggi lo porta come esempio.
Come vivono tutti i “Cuori neri”, a dispetto del tempo che passa, delle ingiustizie subite, del dolore che è inevitabilmente rimasto, di una politica ancor più grigia di allora e dell’oblio in cui “un paese democratico” come l’Italia li ha lasciati sprofondare.
A conclusione di una cronaca in cui è protagonista la morte, a molti di voi sembrerà anche strano, non riesco a non provare un forte istinto alla vita, al sogno, a lottare per ciò in cui credo.
Ancor più di prima, prima che mi rapissero queste ottocento pagine.
Qualsiasi cosa ne pensiate, da destra o da sinistra, non posso che ringraziare Luca Telese per averci donato questo libro.
LUCA TELESE (Cagliari, 1970), è un giornalista, scrittore e autore televisivo. Ex portavoce di Rifondazione Comunista, inizia la sua carriera collaborando con L’Unità, Il Manifesto, Il Messaggero e Il Foglio. Collabora anche con la società giornalistica “La Vespina”. Dal 1999 lavora con Il Giornale, occupandosi soprattutto di politica, spettacoli e cultura. Dal 2003 collabora con “Vanity Fair”. Autore di alcune trasmissioni televisive (Cronache Marziane, Chiambretti c’è, Batti & Ribatti) e conduttore del programma televisivo Planet 430. Nel 2003 pubblica “La lunga marcia di Cofferati”. Nel 2006 esce “Cuori neri”, ed è un grande successo editoriale. Attualmente partecipa alla trasmissione televisiva “Confronti”, su Rai 2.
Luca Telese, Cuori Neri. Dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli, 21 delitti dimenticati degli anni di piombo. Sperling & Kupfer Editori, pp. 796.
GENERAZIONE 78 (Francesco Mancinelli)
E ti svegli una mattina e ti chiedi cosa è stato
rigettare i tuoi pensieri sulle cose del passato
prendi un fazzoletto nero che conservi in un cassetto
cominciare tutto un giorno, forse un giorno maledetto
frequentando certa gente di sicuro differente
e un battesimo di rito con il fiato stretto in gola
quando già finiva a pugni sui portoni della scuola
e inciampare in un destino che già ti cresceva dentro da bambino
ed un ciondolo d’argento che ti tieni intorno al collo
odio e amore per cercare di capire una logica ideale
una logica ideale in cui ciecamente credi
e tua madre piange sola e ti osserva dietro i vetri
perchè sa che non perdona questa guerra
perchè sa che non ha pace la sua terra.
Un partito vecchia storia, un’ eredità che scotta
nell’ambiguità di sempre come un senso di sconfitta
e ignorare circostanze giochi assurdi di potere
che ne sai di quel passato di nostalgiche illusioni
di un confronto che da sempre si è attuato coi bastoni
e sentirsi vivere dentro a vent’anni all’occasione
per cercare di dare un senso alla tua Rivoluzione
poi una sera di gennaio resta fissa nei pensieri
troppo sangue sparso sopra i marciapiedi
e la tua disperazione scagliò al vento le bandiere
gonfiò l’aria di vendetta senza lutto nè preghiere
su quei passi da gigante per un attimo esitare
scaricando poi la rabbia nelle auto lungo il viale
fra le lacrime ed i vortici di fumo
da quei giorni la promessa di restare tutti figli di nessuno.
Pochi giorni di prigione ti rischiarano la vista
dimmi, come ci si sente con un’ombra da estremista
cosa provi nelle farse di avvocati e tribunali
ed Alberto che è finito dentro l’occhio di un mirino
la Democrazia mandante un agente è l’assassino
e Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile
con le chiavi strette in mano strano modo per morire
e bracci tesi ai funerali ed un coro contro il vento
oggi è morto un Camerata ne rinascono altri cento
e il silenzio di un’accusa che rimbalza su ogni muro
questa volta pagheranno te lo giuro
poi la sfida delle piazze ed i sassi nelle mani
caroselli di sirene echi sempre più lontani
quelle bare non ancora vendicate
le ferite quasi mai rimarginate.
Ma poi il vento soffiò forte ti donò quell’occasione
di combattere il Sistema in un’altra posizione
tra la fine del Marxismo e i riflussi del momento
costruire il movimento tra le angosce dei quartieri
ed un popolo una lotta chiodo fisso nei pensieri
e generazioni nuove in cui tu credevi tanto
poi quel botto alla stazione che cancella tutto quanto
e al segnale stabilito si dà il via alla grande caccia
i fucili che ora puntano alla faccia
le retate in grande stile dentro all’occhio del ciclone
tra le spire della “santa inquisizione”
poi le tappe di una crisi di una storia consumata
di chi trova la sua morte armi in pugno nella strada
di chi viene suicidato in una stanza di chi fugge
di chi chiude nei cassetti anche l’ultima speranza.
E ti svegli una mattina sulle labbra una canzone
e l’immagine si perde sulla tua generazione
quei ragazzi un pò ribelli un pò guerrieri
che hanno chiuso nei cassetti e dentro ai cuori tanti fazzoletti neri.
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