In scena al Vittorio Emanuele di Messina, una rappresentazione teatrale in forma di musical intrisa di contraddizioni ed inquietudini.
Il Dr Jekyll e Mr Hyde, ideato e diretto da Giancarlo Sepe, è quanto di più distante da una semplice rappresentazione teatrale ispirata alla letteratura di fine ottocento chiunque potrebbe aspettarsi.
Travalicando i confini dello stereotipo, non ci si trova innanzi ad una scenografia che riproduce vecchi palazzi londinesi e nebbiose strade metropolitane. Incorniciati, invece, da soluzioni sceniche tanto semplici quanto efficaci, si alternano i personaggi di una realtà che vive sul confine, labile ed instabile, tra bene e male, tra regole e trasgressione, tra rassegnazione e scoperta di sé.
Nonostante ciò l’atmosfera del romanzo di Stevenson è perfettamente percettibile.
Il romanzo, viene preso a modello per reinventare un dialogo che non è composto di sole parole, ma di musiche e passi di danza e, naturalmente, tratta del dualismo insito in ciascun essere umano.
Quel dualismo ricercato ed addirittura “celebrato” dal Dr Jekyll viene introdotto dal dialogo e dalla stessa presenza scenica di Alice ed Ellen Kesller. Le sorelle Kessler partecipano al musical con lo stesso stile che ha fatto di loro un fenomeno televisivo degli anni ’60, ma al contempo reinterpretano brani recenti e meno, da Amy Winehouse a Lou Reed.
Volendo riannodare le fila intricate di scene che fanno di questa rappresentazione qualcosa di assolutamente originale, possiamo dire si tratta della storia di coloro che lo stesso Hatterson definisce “animi incontinenti”, che strasbordano nel delirio, nelle perversioni, fino a compiere i delitti più efferati.
La scena viene popolata da esponenti della nobiltà londinese che abbandonano la raffinatezza dei loro salotti per battere i marciapiedi, per tramutarsi in serial killer, in viaggiatori immorali dell’universo parallelo che è in loro stessi ma a loro stessi sconosciuto.
In questo andirivieni di personaggi, fa la sua comparsa in palcoscenico anche Jack lo Squartatore che compì il primo di una serie di macabri delitti proprio il giorno in cui Richard Mansfield si esibiva nella trasposizione per il teatro dello stesso romando di Stevenson.
Sepe s’interroga su chi possa dirsi meglio di un altro, riconoscendo in tutti la continua mobilità verso la scoperta di un qualcosa che ben potrebbe identificarsi con un se stessi diverso, se non addirittura opposto, e l’illusione di poter rivivere una giovinezza sfrenata, magari al contrario di come la si è effettivamente passata.
In fondo, nel suo essere talvolta insensata, talvolta meravigliosamente “sfrenata”, nasconde piaceri che non tornano quando giunge il tempo della maturità.
Alle costrizioni imposte da modelli sociali, forse, non tutti resistono.