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TEMPO DI CHET – Al “Monk” di Catania è andato in scena il grande jazz

– di Corrado Speziale –

 

Paolo Fresu, Dino Rubino e Marco Bardoscia, col progetto dedicato all’indimenticabile Chet Baker, nel jazz club catanese hanno regalato un week end indimenticabile di grande musica con emozionanti momenti di relazione e condivisione. Il repertorio, tratto dall’omonimo album inciso per la Tŭk Music, ha ripercorso i momenti di “Tempo di Chet – La versione di Chet Baker”, lavoro teatrale e musicale di grande successo andato in scena, con il trio sul palco, da ottobre a febbraio, in 29 teatri del Nord Italia e riproposto eccezionalmente ad agosto a Berchidda per Time in Jazz. Il concerto di venerdì, iniziato con “My Funny Valentine” e concluso prima del rientro con “Blue Room”, brani simbolo di Chet, si è distinto per le atmosfere regalate da ballad straordinarie e brani appositamente scritti dai tre musicisti dedicati al trombettista californiano. Paolo Fresu, sul progetto: “Abbiamo provato a raccontare Chet Baker in una doppia veste, quella umana e quella musicale, dove tuttavia l’una non è scindibile dall’altra”. Sulla sua vita e la sua morte: “Il mistero di Chet è bellissimo…”

 

Teatro e musica dal vivo in un unico contesto: l’arte totale, un connubio vincente. E visto che si tratta di jazz, questo è il commento di Paolo Fresu su “Tempo di Chet”, considerando che il trombettista sardo, nonostante la sua grande fama, molto raramente si sbilancia: “Siamo convinti che nel mondo non esista un lavoro così serio e profondo come questo. Un lavoro importante, complesso, perché Chet Baker è stata una figura fondamentale del 900, un grandissimo musicista, molto conosciuto anche in Italia non solo per la musica, ma per tutto quello che ha vissuto”. Un progetto importante e un po’ rischioso: “Avevamo molta paura di intraprendere questo viaggio – dice il trombettista – ma non perché avessimo paura di suonare per quattro mesi ininterrotti, ma perché da musicisti di jazz, abituati ogni sera a suonare una cosa nuova, avevamo paura di doverci ripetere. Invece abbiamo raccontato ogni sera una faccia diversa di Chet Baker”.

Vita controversa, esagerata e sofferta, quella del trombettista bianco di Yale, ma al tempo stesso intensa e misteriosa, piena di incontri e avventure umane e artistiche che vengono riportate in scena in maniera eccellente nell’opera che ha girato con successo i teatri del Nord Italia. Ma il “Monk”, caratteristico, accogliente jazz club del centro storico di Catania, non ha ovviamente lo spazio per accogliere le scene della produzione teatrale, con la regia di Leo Muscato, protagonista l’attore Alessandro Averone. Dunque, Paolo Fresu, Dino Rubino, quest’ultimo nella veste anche dell’accogliente “padrone di casa”, e Marco Bardoscia, le atmosfere le realizzano attraverso le note dei loro strumenti e la trasmissione coinvolgente del loro pensiero. E al Monk l’aria che si respira riporta a quelle di un jazz club dove avrebbe suonato Chet Baker. Non per niente lo fa adesso Paolo Fresu. La sua tromba e il suo carisma, il pianoforte di Dino Rubino e il contrabbasso di Marco Bardoscia interagiscono, viaggiano liberamente e disinvoltamente nell’America degli anni Sessanta, improvvisano e si intrattengono laddove non “costretti” dai tempi della recitazione, come avveniva in tournée. Il trio emoziona con le sue ballad, i giri blues, i passaggi colorati e intensi, incontrando i gusti e i sentimenti del pubblico.    

Il senso delle serate al Monk, sei concerti in tre giorni, era ripercorrere solo con la musica le scene e i momenti del teatro. “Lo facciamo con la poesia – dice Paolo Fresu – che ha sempre permeato la musica di Chet e che in qualche modo permea anche la nostra”.

Il concerto inizia nel solco della tradizione: “My Funny Valentine”, è perfetto per scaldare le dita di Dino Rubino e Marco Bardoscia, con Fresu che inizia a far echeggiare il suo flicorno. Con “Basin’ Street Blues”, ripreso ed evoluto dalla versione originale, l’atmosfera prende quota in una coinvolgente esecuzione.

Lucca, stanza n. 15 dell’”Hotel Universo”. Paolo Fresu non se l’aspettava, l’assegnazione di quella camera sobria, anni 50, è stato un omaggio della titolare. All’’interno, una foto di Chet alla finestra. Vi alloggiò una settimana, nel 1960, prima che venisse arrestato. L’emozione portò Paolo Fresu a comporre un brano suggestivo, al tempo stesso leggero e misterioso.

Ancora un omaggio: questo brano di Dino Rubino è un immaginario dialogo contemporaneo, tecnologico con Chet Baker. “Chat with Chet”, veloce e molto ben articolato, è costruito sulla struttura armonica di “There Will Never Be Another You”.

Dopodichè,“The Silence Of You Heart”, sempre opera del pianista di Biancavilla, sarà la splendida ballata, “come Chet avrebbe voluto suonarla”, riferisce in sala Fresu.

Nel progetto e nel concerto, anche due brani, sempre scritti da Palo Fresu, suonati in sovraincisione con la batteria spazzolata di Stefano “Brushman” Bagnoli. Il primo è “Palfium”. Il titolo non è casuale, si tratta di uno dei farmaci oppioidi somministrati a Chet Baker. Quello di Paolo Fresu è un omaggio, un’attenzione alla persona, all’amico artista che avrebbe voluto frequentare.

Seguirà “Fresing”, brano di Marco Bardoscia, altra ballad emozionante, dove la narrazione scorre lenta e vola via leggera sull’onda del piano di Rubino e in particolare della tromba di Fresu: “Omaggio non solo a Chet, ma anche al sottoscritto, in quanto concepito su una struttura melodica di carattere diatonico circolare”, scrive il trombettista nelle note musicali del progetto.

Intenso, di una fusion delicata e variegata sarà “Catalina” di Fresu, con Bardoscia che ad un certo punto imbraccerà l’archetto che regalerà “visioni” al pubblico in sala.

Altro brano “spazzolato” su base di Stefano Bagnoli e altro farmaco: “Jetrum”, dove il jazz, a dispetto delle indicazioni farmacologiche del medicinale, prende ritmo e velocità.

Prima del saluto degli artisti un brano simbolo della carriera di Chet per un finale sensazionale: “Blue Room”, riproposto in chiave lenta per agganciare la voce in sottofondo di Baker, incisa nel 1979.

Ma non finisce qui, perché ormai Dino Rubino ha preso a sé come titolo di coda “Il Canto dell’addio” cui si affezionò quando frequentava i boy-scout. Naturalmente Fresu e Bardoscia gli vanno dietro magnificamente. Piuttosto di un addio, prendiamolo come un inno benaugurante per il ritorno del trio in Sicilia.

Paolo Fresu, conclusa la tre giorni catanese: “Grazie per l’ospitalità straordinaria ma non inaspettata. Tre giorni magnifici in una Catania piena di sole, di mare e di musica. Quella delle strade e delle piazze, e quella di un piccolo luogo coraggioso e ospitale, gestito da amici musicisti e da appassionati, il Monk Jazz Club dedicato a Thelonious. Pubblico fantastico e caloroso per un luogo che respira passione e civiltà”.

 

Redazione Scomunicando.it

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