American Fiction è il vero outsider di questa edizione, in Italia come in altri paesi. Non ha avuto neanche la distribuzione in sala, finendo direttamente in streaming sulla piattaforma Prime Video, e neanche in vendita o a noleggio, ma compreso nell’abbonamento.
LA SCHEDA DI AMERICAN FICTION
Golden Globe 2024:
Candidatura per il miglior film commedia o musicale
Candidatura per il miglior attore in un film commedia o musicale per Jeffrey Wright
Nomination Premio Oscar 2024:
Candidatura per il miglior film
Candidatura per il miglior attore per Jeffrey Wright
Candidatura per il miglior attore non protagonista per Sterling K. Brown
Candidatura per la migliore sceneggiatura non originale
Candidatura per la migliore colonna sonora
L’unico premio vinto fino ad adesso è il Premio del pubblico al Toronto International Film Festival.
Il film
Primo film, credo di una lunga serie, dichiaratamente contro il pensiero “Woke”. I più giovani sanno cos’è, ma noi navigati abbiamo bisogno di qualche spiegazione: sempre da Wikipedia: Woke (letteralmente “sveglio”) è un aggettivo inglese con il quale ci si riferisce allo “stare all’erta”, “stare svegli” nei confronti delle ingiustizie sociali o razziali. La voce è entrata nei dizionari della lingua inglese nel 2017 attraverso il movimento attivista statunitense Black Lives Matter. Woke è correlato a due sostantivi.
Con il primo, wokeness, si intende il “non abbassare la guardia” sempre in riferimento a quanto sopra, quindi uno stato di consapevolezza, in particolare di fronte a problemi sociali come il razzismo e la disuguaglianza. Il secondo è wokeism (italianizzato in wokismo) che indica il comportamento e gli atteggiamenti sensibili alle ingiustizie sociali e politiche.
Direte: “il politicamente corretto no?”
No, o almeno, non proprio. Sveglio, non abbassare mai la guardia significa paradossalmente un’esasperazione del politicamente corretto, arrivando a farlo diventare un cliché insopportabile a mio parere. Per farvi un esempio, ormai le fiction italiane devono tutte avere un atteggiamento inclusivo ma sminuendo il concetto. Deve esserci sempre lo straniero, nero o mussulmano per lo più, sempre buono e l’attrice principale di solito ha un amico gay sempre gentile e disponibile che sembra quasi non avere una vita se non in funzione dell’amica. C’è l’ambientalista, quello impegnato nei diritti civili, e, ovviamente, la femminista. American Fiction mette tutto questo in discussione.
Il professore universitario di letteratura inglese Thelonious Ellison (Jeffrey Wright, unica vera interpretazione maschile da Oscar), afro-americano nato a Boston e conosciuto come “Monk” (notate la somiglianza Monk-Woke) non riesce più a tollerare quest’esasperazione degli studenti (“da quando gli studenti sono diventati così sensibili”) verso la tolleranza e il rispetto a tutti i costi e comunque. Nella prima scena infatti vediamo scritto alla lavagna “Nigger” e una ragazza, ovviamente dai capelli blu, bianca, è sconvolta, ma Monk le dice che nel contesto letterario di quei tempi si diceva “nigger” e non “di colore”. Lei si alza devastata e scappa via in lacrime.
Cioè, lei bianca si offende, lui nero non ne può più. Questo è il tono di tutto il film che alterna momenti esilaranti al dramma quotidiano della vita in sé. I suoi libri vengono rifiutati perché “non è abbastanza nero”. Monk, infatti, scrive rielaborazioni dei miti greci o alta letteratura. Ma no, un afroamericano deve scrivere nella lingua del ghetto, rap, cazzo, troia, amico, fratello, bello, omicidi senza motivo, perché è un linguaggio “crudo e necessario”. Quando è costretto dalla scuola a prendersi qualche giorno perché troppo teso e nervoso, l’uomo va a Boston dove vive la sua famiglia.
Viene travolto dai drammi: la sorella medico in una clinica che aiuta i bambini e prosciugata dal divorzio, muore improvvisamente d’infarto; il fratello chirurgo plastico lasciato dalla moglie che lo ha trovato a letto con un uomo, dedito al delirio gay represso, all’alcool e alle droghe; la madre malata di Alzheimer che deve vivere in una clinica dal costo esorbitante. Invitato ad un festival di letteratura, si ritrova a parlare di fronte a dieci persone perché la vera attrazione del festival è Santara Golden con il libro “nero, crudo e necessario” We’s Lives in Da Ghetto. In Monk monta l’ira e si ritrova a scrivere rabbioso un romanzo di questo genere.
Indimenticabili le scene in cui c’è lui che scrive e i personaggi che dialogano tra loro che a momenti si fermano e gli chiedono cosa devono dire e perché. Invia il romanzo al suo manager che non vuole spedirlo agli editori, ma Monk gli dice che è una provocazione, un atto di ribellione, infatti lo firma con lo pseudonimo di Starr H. Leigh. L’editore lo spedisce ed è subito boom con offerte astronomiche. In più, durante un’intervista telefonica dove finge un’altra voce e un altro linguaggio, dichiara di essere un assassino in fuga da dodici anni. Figuriamoci, il libro “Fuck” prende il volo ed arriva nelle mani di un regista che vuole assolutamente farne un film offrendo 4 milioni di dollari.
Nel frattempo, viene invitato a far parte della giuria del più prestigioso festival letterario dove ritrova la scrittrice. Inoltre, vive una relazione con una donna, Coraline, che ha incontrato a Boston. Insomma, la sua vita sembra aver preso decisamente un’altra piega. Ma quando “Fuck” è votato 3 su due (lui e Santara dicono no) come miglior libro e che dunque vince il premio. Alla cerimonia, “Fuck” viene annunciato come vincitore. Monk decide di salire sul palco e di rivelare la sua identità, ma quando sta per iniziare…
Come al solito ci fermiamo qui.
Esordio alla regia di Cord Jefferson, sceneggiatore televisivo tra l’altro dell’inquietante mini-serie “Watchmen”, American Fiction è basato sul romanzo “Erasure” di Percival Everett. Ci ritroviamo nelle atmosfere de “Il grande freddo” di Lawrence Kasdan, e soprattutto nel bellissimo “Oltre il giardino”, quindi coralità e mediocrità invece di solitudine ed edonismo, per pochi e non commerciale. Il fratello definisce Monk così: “Le persone vogliono amarti Monk, personalmente non so che ci trovino in te, ma vogliono amarti, lascia che amino tutto di te”. La rabbia, la contestazione di Spike Lee ha lasciato il posto ad un’analisi della società che tiene conto di una vita che i neri possono avere, comune, banale quasi, normale se vogliamo. Qualcuno ha scritto: “L’idea di partenza di American Fiction possedeva tutte le carte in regola per farne una satira sociale di enorme presa e soprattutto graffiante descrizione del razzismo culturale ancora vigente negli Stati Uniti. Il regista e sceneggiatore sceglie invece un approccio maggiormente orientato alla rappresentazione psicologica del protagonista, inserendolo dentro le dinamiche di un dramma familiare che rende l’operazione decisamente più adatta ad andare incontro ai gusti del grande pubblico”. Credo anch’io sia così, si sente che il film si potrebbe spingere oltre. La curiosità verso il libro c’è anche se bisogna sempre considerare una sceneggiatura come una forma letteraria sempre originale, anche quando tratta da un libro. Resta comunque un bellissimo film, che apre le porte ad un filone che di sicuro prenderà sempre più piede. Concludiamo qui i candidati a miglior film, perché dopo aver recensito anche i film candidati a miglior film internazionale (“La zona d’interesse” per l’Inghilterra e “Io capitano” per l’Italia li abbiamo già analizzati),
Vorrei chiudere, come avete intuito (Ma davvero???), con “Povere Creature”.
Continua…