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Vidya – un’esperienza ‘tattile’

Esploreremo insieme la relazione esistente tra alcuni tratti caratteristici della grande dea nell’India antica e la specifica qualità della coscienza che emerge nell’esperienza yogica.

Nell’immobilità viva dell’asana si rende accessibile una percezione della realtà, una modalità conoscitiva non mediata dalla logica discorsiva e dall’approccio intellettuale che caratterizza il funzionamento ordinario della coscienza. Lo Yoga dischiude l’accesso a un’integrazione profonda delle dinamiche somato-psichiche (nota 1) e ad una capacità percettiva diretta e spontanea, di natura originariamente fisica, ma transmodale, ovvero con ripercussioni psichiche complesse, allo stesso modo della gestualità che contraddistingue una mudra o della vocalità che connota un mantra nello Yoga propriamente tantrico.

Questa modalità della coscienza yogica non richiede un impegno o uno sforzo volontario per aver luogo, si manifesta naturalmente, intensamente ed istantaneamente in una condizione di passività e rilassamento sensoriale, quando le tensioni muscolari si sciolgono nella ricettività spaziosa e accogliente, propria dell’asana. La postura yoga assume dunque la funzione di contenitore – o meglio di grembo vero e proprio – di questa condizione dell’essere, la nuda percezione di essere, che costituisce già di per sé un risveglio dell’intelligenza del corpo e il modo primigenio di conoscere noi stessi e il mondo. Abbandonarsi in questa condizione non è inerzia, ma far spazio ad accogliere una motilità cosciente, ciò che nella tradizione tantrica medievale del Kashmir viene chiamato spanda, la vibrazione originaria della vita che è al tempo stesso la coscienza nella sua forma energetica. Riscontriamo tale aspetto di istantaneità e sensorialità non mediata in tutta la ritualità tantrica connessa al culto della dea e alla dea in persona, in quanto energia cosciente, manifesta e tangibile.

La ‘concretezza’ e la fisicità dell’India religiosa

E’ nota l’attitudine ‘concreta’, diremmo quasi ‘tattile’ della forma mentis indiana. Il divino viene abitato, toccato, sentito, annusato, gustato, più che evocato o pensato. Gli stessi rshi, i ‘veggenti’ vedici, nella loro visione intuitiva del divino non vedevano soltanto mentalmente, ma erano ‘posseduti’, abitati dalla loro visione: un’esperienza conoscitiva che implicava la sinergia di corpo e mente. Altro esempio, che ci avvicina alla specifica relazione che intendiamo qui esplorare: nel culto tantrico della dea, essa viene lavata, le si dà da mangiare e da bere proprio come ad una presenza viva, che va mantenuta e accudita, senza mai dare per scontato il suo abitare realmente l’icona che la rappresenta. Sempre nella ritualità tantrica: il calice sacro (kundagola) che contiene spesso un liquido alcolico, diviene per tutta la durata della puja (nota 2) la dimora effettiva del dio o della dea e il liquido, la divinità stessa.

Non c’è quindi transustanziazione, come nel rito della messa in Occidente, in cui il pane e il vino si trasformano a un certo punto nel corpo e nel sangue di Cristo; il liquido contenuto nella coppa è già la divinità fin dall’inizio, in tutta la sua concretezza, senza necessità di mediazione trasformante.

Possiamo riscontrare tale attitudine ‘concreta’ anche nel significato della postura yoga: l’asana come spazio sacro in cui il divino (nota 3) viene concretamente accolto, celebrato, contemplato, incarnato in senso letterale dallo yogin. In asana il corpo dello yogin è il luogo del risveglio della coscienza e dunque la sede per contemplare e conoscere la realtà così com’è, la sua naturale sacralità, a cominciare proprio dal corpo nel luogo più intimo, l’area viscerale, connessa all’energia della terra e alla femminilità in generale. Percepire la naturale vitalità di quel luogo è già contemplazione, è già conoscenza, è già Yoga.

Yoni pitha: la porta della conoscenza

La condizione della coscienza che qualifica l’asana è caratterizzata da una modalità percettiva che possiamo collegare all’energia femminile, alla dea in senso lato. La percezione di sé, la sensazione di essere vivi, emerge in modo particolarmente vivido nella regione addominale, l’area del baricentro, ciò che più propriamente ci connette alla terra, alla gravità, alla femminilità. E’ l’area che tradizionalmente abbraccia i primi tre cakra e include la zona genitale.

L’area dei visceri, molto irrorata e strutturata in un’abbondante rete di cellule nervose, è spesso chiamata proprio per questa sua organizzazione neurale ‘il secondo cervello’. (nota 4) Da essa emerge tutta una serie di informazioni elaborate che costituiscono già una conoscenza sui generis. La percezione profonda di quest’area che l’immobilità in asana fa emergere rappresenta cioè un primo accesso alla comprensione di sé e del mondo, una forma di conoscenza che potremmo definire primordiale, nutrita cioè dal ritmo antico della pulsazione originaria, a noi noto già nel grembo materno, prima ancora di imparare il ritmo del respiro vero e proprio.

Tale ritmo primitivo è generatore di veri e propri modelli cognitivi complessi.

Nei templi indù si entra scalzi, si tocca con la mano il pavimento all’interno del tempio, si accosta la fronte a terra. Senza dubbio tali comportamenti evidenziano, tra l’altro, la volontà di toccare direttamente la matrice del divino. I piedi, la parte del nostro corpo che ci connette propriamente con la terra, nel recinto sacro del tempio attivano una relazione concreta con la divinità. La testa, la mente razionale, viene depositata e abbandonata come un’offerta al suolo durante tutto il tempo rituale, divenendo secondaria la sua funzione, così centrale nel modo ordinario di rapportarci alla realtà. Nell’iconografia tradizionale, la dea Kali brandisce una spada e una testa mozzata, mentre Chinnamasta (la Decapitata), altra rappresentazione della dea, recide la sua propria testa. Già nell’India vedica il sacrificio per eccellenza consisteva nella decapitazione della vittima, Il tantrismo esalterà ancor più questa offerta sacrificale e cruenta, poiché il sangue, concreto simbolo di vita e di morte, è strettamente collegato all’elemento femminile, centrale nella simbologia tantrica: sangue vivo della nascita, sangue mestruale, sangue scuro nello scioglimento della morte. La regione addominale-genitale rappresenta il luogo originario della conoscenza, che l’atto rituale risveglia. Proprio in tal senso, con ogni probabilità, i visceri dell’animale sacrificato costituivano la parte eccellente e più prelibata dell’offerta.

L’asana si configura come il luogo del contatto. Il corpo tocca terra, il seggio, l’adhara, il fondamento che sostiene la vitalità cosciente, raccolta e accolta nella postura.

Dal basamento di questa ‘tattilità’ sorretta e immobile si risveglia spontaneamente nell’area addominale un’intensità vitale, ciò che nella tradizione esoterica viene chiamata Kundalini, la potenzialità latente della vita stessa, la dea nel suo aspetto corporeo. Il suo ridestarsi viene percepito come calore, rumore, vibrazione, movimento ascendente dai visceri alle regioni ‘celesti’ del corpo umano e in questo palpito ardente ritroviamo tutta la passionalità e il simbolismo del sangue connesso con la dea (nota 5). Secondo la tradizione indiana la nostra origine è il cielo, le nostre radici affondano negli spazi siderali, come nel mitico albero capovolto aswattha, di cui fanno già cenno scritture molto antiche (nota 6). Il ‘viaggio di ritorno’ della coscienza verso l’alto è innescato dal fermento vitale nelle regioni basse del corpo, che l’immobilità nell’asana alimenta come un’attizzatoio su un fuoco che crepita. Quel fervore lievitante induce una qualità percettiva che diverrà materia di arricchimento conoscitivo ed elaborazione concettuale. Il ‘ritorno al cielo’ della nostra coscienza porta a maturazione una consapevolezza più vasta: non è solo ritrovare l’origine, ma una capacità conoscitiva che ha abitato, trasformandosi, l’intensità viscerale della terra. L’asana si configura come il luogo, l’alveo o grembo di questo risveglio trasformante.

Un ‘viaggio iniziatico’: scendere nella terra per ritrovare il cielo

Nel tempio indù di Kamakhya in Assam, custode secondo la tradizione della yoni, la vulva stessa della dea, il pitha, ovvero la cella oscura che custodisce la yoni è sotto il livello del terreno, radicato nella terra, una sorta di matrice originaria. In generale in tutti i templi dedicati alle diverse manifestazioni della Shakti, il garbha grha (cellula madre) ovvero il luogo più sacro e intimo, è interrato. I colori della struttura templare e delle vesti dei sacerdoti votati alla dea sono il giallo ocra e il rosso scuro, associati tradizionalmente alla terra e alla radice della vita: muladhara, il primo cakra, situato a guisa di vero fondamento alla base della colonna vertebrale del corpo umano. Secondo la fisiologia mistica, tutti i cakra successivi, che si collocano dentro la colonna in successione ascensionale non fanno che prolungare la forza della pulsazione addominale, trasfondendo l’energia vitale ovunque nel corpo.

Il tempio si configura come il fondamento che accoglie la dea, l’asana come l’alveo che contiene, come in una gestazione custodita, il corpo dello yogin.

Il percorso rituale che si dipana per cunicoli stretti e lunghi circondati da grate, che conducono fino alla yoni nel tempio di Kamakhya viene – non a caso – chiamato darshana, intendendo con tale appellativo una sorta di tragitto iniziatico che porta, dopo alcune ore di lento cammino, a vedere e toccare insieme nell’umidità buia della terra la vulva della dea, datrice di vita e di morte, ma anche di conoscenza. I pellegrini incuneati negli stretti passaggi che si snodano lungo tutto lo spazio templare, perdono a poco a poco l’ordinaria percezione del tempo. Il rito ricorda una vera e propria nascita e ha un profondo impatto nella vita inconscia di chi vi si sottopone: stretti come dentro il canale del parto, si vive verso la fine del cammino un’ambascia archetipica: nell’ultimo buio cunicolo, si sosta in silenzio, chiusi a chiave ad aspettare, con la paura di soffocare lì sotto, mentre sale alla mente l’immagine degli animali che, in un’area del tempio poco lontana e preposta a tale scopo, quotidianamente vengono sacrificati alla dea, dispensatrice di vita, ma anche assetata di sangue. Tutto si conclude invece favorevolmente, avvolti dall’oscurità calda e bagnata della cavità sotterranea, come al termine di una iniziazione al femminile. ‘Toccare’ in tale esperienza coincide con ‘vedere’ e la porta di ingresso in questa conoscenza ‘integrata’ è il grembo della dea. In asana, parallelamente, la percezione calda e viscerale del centro dell’addome dischiude una sensibilità integrata e globale che va a coinvolgere anche i cakra superiori e la funzione razionale, diffondendosi dal basso verso l’alto.

Le brocche tondeggianti usate per contenere l’acqua nell’India autoctona, raffiguravano un corpo femminile nudo decapitato (nagna kabandha) che esibiva la vulva, accovacciato a terra nella posizione della partoriente o dell’amante (uttanapad). L’eliminazione della testa, sostituita in alcune raffigurazioni da un fior di loto (padma), ricorda la più tarda iconografia della già menzionata dea tantrica Chinnamasta. Fare a meno della testa significa, come abbiamo visto, riporre la massima fiducia in una coscienza ctonia che precede l’approccio intellettuale, associato alla dimensione uranica, celeste, maschile. Padma, che viene a sostituire la funzione razionale, non rappresenta soltanto il fiore del loto ma nel linguaggio esoterico indica allo stesso tempo sia l’organo genitale femminile, sia vidya, la conoscenza in senso proprio. La modalità conoscitiva che padma rappresenta è ‘integrata’: il fior di loto nasce nell’oscuro fango dello stagno e cresce ascendendo verso la luce, schiudendo i petali sulla immacolata superficie dell’acqua. Attraverso un’esperienza ‘viscerale’, la percezione della vitalità organica in asana, si dischiude, parallelamente, una sintesi conoscitiva che integra la funzione intellettuale.
La tradizione tantrica considera la vulva come ‘la bocca inferiore della yogini’, yoginivaktra. Ed è proprio attraverso questa ‘bocca inferiore’ (adhovaktra) che l’adepto può accedere alla dottrina segreta più profonda, un insegnamento che non è solo pensato, ma toccato, vissuto, potremmo aggiungere ‘goduto’. L’equazione vulva-conoscenza era del resto nota in tutte le società arcaiche dove il regressus ad uterum era allegoria di rinascita allo stato iniziatico. Nell’India brahmanica il rituale iniziatico (diksha) si configurava come una sorta di gestazione ed era previsto che l’adepto assumesse in alcune fasi del rito la posizione raggomitolata del feto. Per la nascita di un corpo nuovo, ‘consacrato’ (dikshita) era necessario diventare tutt’uno con la matrice; la scena sacrificale si trasformava di fatto nella matrice stessa. Il sadhana dello Yoga si profila senz’altro nella sua accezione più autentica come una via iniziatica facendo propria l’indicazione di trasformare, abitando l’asana, l’attitudine mentale e il corpo nella postura che lo contiene, in una nuova modalità sensitiva, foriera di conoscenza. Interessante a proposito del femminile come matrice di una nuova coscienza, l’esistenza in epoca vedica, ma probabilmente anche in tempi più antichi, di una dea Jnah (= conoscenza), termine da cui deriva etimologicamente la parola ‘donna’.

Nell’asana, proprio come avviene nel caso di un concreto luogo fisico, la coscienza risvegliata si installa, quindi vi dimora per un certo tempo, ed infine lascia la sua sede, come accomiatandosi al termine del rito che si è compiuto.

Ritrovando la coscienza ordinaria, un’impronta rimane però impressa nella psiche, come una sorta di sigillo della trasformazione avvenuta. Queste tre fasi della coscienza in asana, possono essere associate in qualche modo alla discesa della dea, che durante l’atto rituale, viene ad ‘abitare’ il luogo sacrificale per tutta la sua durata e quindi si congeda una volta esaurito il tempo del rito. Secondo la prospettiva presa in esame l’esperienza yogica si configura come desha (luogo) e kshetra (campo), luogo e spazio rituale preposto all’attivazione della coscienza, originariamente ‘viscerale’, che si sviluppa nella permanenza in asana, proprio come in un grembo che la custodisce e la nutre, fino alla completa maturazione e integrazione.

Note

1) Cfr. intorno a tutta la problematica della coscienza e alle sue connessioni con il corpo fisico: W.Van Lysebeth, Yoga Al cuore dell’essere, Mursia 2011 e J. Tolja-F. Speciani, Pensare col corpo, Zelig 2000.

2) La puja in India è la cerimonia di adorazione, resa di omaggio e culto di una divinità.

3) intendiamo con il termine ‘divino’ l’accesso a una dimensione essenziale e profonda della realtà, che non necessariamente comporta l’adesione ad uno specifico credo religioso.

4) Cfr. E. Soresi, Il cervello anarchico, Utet, Frontiere 2005.

5) La metafora sessuale e la passione desiderante nella sua accezione più universale sono alla base della simbologia connessa con il risveglio della Kundalini.

6) Si parla del mitico ‘albero rovesciato’ già nel Rg Veda, nella Katha e nella Maitri Upanishad. Questo simbolo è noto anche nella tradizione mistica occidentale, ne fa cenno ad esempio Platone nel Timeo.i dell’art. 7 e seguenti del D.Lgs. n. 196/2003, si precisa che i dati personali acquisiti dal Comune di Brolo saranno trattati esclusivamente per le finalità connesse alla procedura concorsuale e che lo stesso trattamento sarà improntato a liceità e correttezza, nella piena tutela dei diritti dei concorrenti e della loro riservatezza

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Gioia Lussana

Laureata cum laude in indologia con R.Gnoli; nel 1987 è stata co-fondatrice dell’A.Me.Co. (Associazione per la meditazione di consapevolezza) con Corrado Pensa e per oltre 20 anni ha sperimentato la pratica della meditazione vipassana con maestri del buddhismo contemporaneo (tra i quali J.Goldstein, C.Titmuss, J.Kornfield, C.Feldman, S.Batchelor, A.Sumedho). Ha approfondito l’esperienza del silenzio e della consapevolezza direttamente con R.P. Kaushik e Vimala Thakar e ha potuto ascoltare dal vivo gli insegnamenti di J.Krishnamurti in Svizzera.

Ha concluso un iter di formazione nell’ambito del taoismo cinese tradizionale con il Maestro Li Xiao Ming, ottenendo il diploma intermediate riconosciuto dall’Università di Pechino. In questo percorso ha studiato con particolare interesse le pratiche energetiche e meditative proprie del Qi Gong.

Insegnante yoga della F.M.Y., formatasi con Antonio Nuzzo (Advaita Yoga Sangha), ha successivamente proseguito la ricerca dello yoga con altri insegnanti, tra i quali: Eric Baret, Daniel Odier, Willy Van Lysebeth (ha intervistato questi ultimi 3 per la rivista Appunti di Viaggio), Donna Farhi, Boris Tatsky.

Tiene regolari corsi di yoga a Roma con l’Università Popolare (Uptersport) dove è anche docente nella scuola di formazione per insegnanti yoga.

Nell’ottobre 2010 ha vinto un concorso di dottorato di ricerca presso l’Università La Sapienza di Roma sotto la guida del prof. Raffaele Torella in filosofia indiana.

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tratto da Yoga e Solidarietà

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