Il libro sarà presentato a Villa Piccolo di Capo d’Orlando, quest’oggi, 16 ottobre, alle ore 10,30, per iniziativa del Gal Nebrodi Plus. A dialogare con l’autore ci sarà Massimo Scaffidi Militone. Ad introdurre la presentazione ci penserà Francesco Calanna, presidente del Gal Nebrodi Plus che ha evidenziato su come “La targa Florio è stato un evento che ha contribuito a cambiare il volto della Sicilia”.

Il bell’articolo di Gian Mauro Costa pubblicato su Repubblica il 26 febbraio 2021

Targa Florio 1906

la sfida del futuro nella Sicilia povera

Il rombo dei motori, il fumo dei vapori: la Sicilia del 1906 sembra uscire da una canzone di Dalla e De Gregori. Da una parte il sogno temerario delle macchine volanti che sbeffeggiano sul tracciato delle Madonie un paesaggio aspro, rurale, che sinora ha conosciuto solo lo scalpito del mulo; dall’altra il vagheggiamento disperato di un lontano paradiso terrestre, l’America, dove la catena di montaggio al posto della falce emana promesse di felicità e benessere.

Nel 1906, anno della prima Targa Florio ideata da Vincenzo, la Sicilia raggiunge infatti il picco delle emigrazioni. La sfida della modernità, il mito del progresso meccanico si confronta e scontra con il declino delle campagne, con le arcaiche sofferenze dei braccianti, l’odore pungente della benzina si contrappone a quello acre del mosto, del sudore dei corpi esposti al sole.

Il 1906, nel bene e nel male, diventa dunque il simbolo epocale di una nuova Sicilia, si delineano i percorsi delle divergenze parallele che condizioneranno l’Isola nella sua economia irrisolta tra scommesse industriali, occasioni perse, frettolose rinunce al settore primario, e nel suo destino politico, schiacciato da interessi, corruzioni, mafie.

È la Sicilia descritta, con perizia giornalistica, ricchezza narrativa e passione sportiva e sociale, da Francesco Terracina nel suo libro “Targa Florio – Le Madonie e la gara più bella”, che uscirà il prossimo 4 marzo per l’editore Laterza. E Terracina sa come pilotare contromano: il suo non è un saggio apologetico della Targa, non un resoconto sportivo o un’arida nomenclatura di personaggi e risultati. E l’autore non ha ceduto neanche alle facili seduzioni di un fortunato filone legato all’agiografia dei Florio. Il suo è invece un racconto, denso di episodi, cronache leggendarie e miti concreti che parte dal grande ossimoro che abbiamo appena evidenziato: la Sicilia arretrata si lancia a braccia spalancate verso la tecnologia, ripudia lentezze e sonnolenze per omaggiare la dea della velocità, la chimera di un mondo nuovo dove le macchine renderanno la vita dell’uomo più audace e meno faticosa.

Da questo punto di vista Vincenzo Florio emerge come una figura coraggiosa e profetica: siamo nella regione meno servita d’Italia dalla rete stradale, nella terra in cui lo scrittore Giuseppe Antonio Borgese ridicolizza il tempo impiegato da un’auto (una settimana, per gli andirivieni con Palermo causa numerose panne) rispetto alle 12 ore di una diligenza. La scommessa di Florio, «continuate la mia opera perché l’ho creata per sfidare il Tempo» nasce ben prima del Manifesto futurista di Marinetti e la conseguenziale idolatria di pistoni e stantuffi, e precede la retorica dannunziana che annuncia che automobile è sostantivo di genere femminile (questione linguistica spinosa, ai tempi) perché «ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza».

Il Vate, ovviamente, sbagliava. Non solo per la sua morale antifemminista ma per la presunta docilità dell’automobile. La storia della Targa Florio, infatti, è a partire dalla stessa prima edizione, disseminata di incidenti, di testacoda, di rovinose perdite di controllo e voli nel vuoto. Il prezzo, altissimo a costo della stessa vita, da pagare sull’altare dell’eroismo su quattro ruote. Sino al tragico bilancio del ’77, con due vittime fra gli spettatori, che segna la fine degli anni ruggenti e inaugura la fase in sordina: il declassamento prima da Mondiale marche a Campionato italiano e poi a rally.

Ma in quei 71 anni, intanto, era successo di tutto: i bolidi, coloro che vi si trovavano a bordo, coloro che accorrevano a centinaia di migliaia per assistere lungo le decine di chilometri del tracciato o trovavano posto nelle ambite tribune di Cerda, coloro che partecipavano indirettamente a quelle giornate frenetiche hanno scritto un’epoca storica, un poema letterario, un saggio antropologico, un trattato di fisica meccanica. I nomi dei piloti – alcuni dei quali celati da pseudonimi- e i nomi dei meccanici, delle comparse, dei notabili dei paesi attraversati o degli anonimi contadini sono diventati i personaggi di questo racconto corale. Tazio Nuvolari, Nino Vaccarella, Stirling Moss, così, hanno la stessa dignità letteraria di Piddu, Masino, Cicciuzzu. Terracina ce li dipinge attraverso un’infinita serie di quadretti, aneddoti, testimonianze, imprese più o meno grottesche e iperboliche: c’è il bracciante sorvolato da un “aciddazzu” (l’uccellaccio è in realtà un’auto uscita di strada); quello che condivide il suo pane, olive e mortadella con gli eleganti borghesi che sono sconfinati nei campi; c’è il misterioso svedese che va alla ricerca dell’uomo impiccato che non è altri che una rara orchidea; c’è Achille Varzi che si intestardisce a correre con la sua auto in fiamme mentre il meccanico accanto a lui la rabbocca di benzina e contemporaneamente cerca di domare il fuoco; c’è lo spettatore che spinge verso il traguardo la macchina in panne, chi con una corda di chitarra sostituisce il filo dell’acceleratore, chi prende da un’utilitaria posteggiata il pezzo di ricambio necessario per proseguire la corsa.

Se la Targa è diventata un mito che ha travalicato l’oceano, ha creato un’immensa famiglia solidale nel ricordo, vuol dire che qualcosa di speciale è stata davvero. Così la “Curva del paralitico” è più emozionante di quella del Tabaccaio, così le caviglie nude delle signore delle tribune di Cerda hanno sedotto più dei bikini del bel mondo di Montecarlo.

Con la colonna sonora dei motori, che hanno generato anche un’espressione madonita, “carcariare”, è andata in scena una rappresentazione di massa che ha mescolato l’olio di ricino dei meccanici all’olio di oliva dei contadini, il fumo dei tubi di scappamento a quello delle grigliate degli inimitabili carciofi del comprensorio. Roba che resta, indelebile, che alimenta ancora racconti che si tramandano di generazione in generazione. Per ricordare che la Sicilia, come ha dimostrato la Targa Florio, non è soltanto fatta dalle coste. Tanto, correndo in qualsiasi direzione, a bordo di una Ferrari o della “nemica” Porsche, si finisce prima o poi a mare.