Dal 26 giugno, venti opere e una decina di bozzetti del pittore-incisore Tano Santoro illuminano la Sala Ristorante dell’Università Bocconi. La nota critica di Felicia Lo Cicero.
Il Realismo di Tano Santoro – si legge nel comunicato stampa che presenta la mostra – si traduce in una smania di imprigionare la luce e la bellezza “nata da ragazzino, quando arrivai a Milano povero e pazzo”. Primo di cinque figli e dotato di una innata curiosità per l’arte e il colore, Tano (Gaetano) Santoro arriva nel capoluogo meneghino negli anni ’60, con due “telette”, una cartella di disegni e e un sogno: seguire l’estro di un gruppo di artisti stravaganti conosciuti al Premio Capo d’Orlando.
«Allora avevo 15 anni. Mi intrufolavo tra Giuseppe Motti, Pizzinato, Zancanaro, estasiato. L’incontro di quell’estate mi lasciò desideroso di diventare pittore», spiega dalla sua casa-atelier di via Bertini, 6, pieno Paolo Sarpi, dove da oltre 25 anni ricerca la giusta vibrazione.
A Milano partecipa al gruppo Borgonuovo (Fumagalli, Tettamanti, Brizzi, Motti, Antonietta Ramponi, Scalvini, Rognoni e pochi altri), riunito intorno all’omonima galleria, diretta dallo stesso Fumagalli e abbraccia lo sforzo di fare della incisione una pittura e della pittura una forma di incisione.
«Il suo realismo è sempre stato un avvertire la fatica, i disagi, le grandi e piccole avversità della vita di tutti i giorni e darne conto nella pittura», prosegue Elena Pontiggia.
«A Milano si viene per realizzare un sogno. Io sono arrivato da ragazzo e sono ancora incredulo di quanto ho realizzato in questa città, come uomo e come pittore» commenta Tano Santoro. «E questo è l’augurio che faccio a tutti gli studenti e a coloro che visiteranno questa mostra», conclude l’artista.
Le Visioni di Tano Santoro saranno visitabili nella Sala Ristorante dell’Università Bocconi di Milano, dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 12, fino al 15 settembre 2017.
La nota critica di Felicia Lo Cicero
Analisi e intuizione sono due distinte modalità di conoscenza della realtà, la prima presume un “giro intorno”, la seconda “un salto dentro”. Questo è l’approccio mediante il quale mi accingo a valutare l’espressione pittorico-incisoria di Tano Santoro. Applicando la prassi strutturalista provo a determinare un insieme organico sezionabile in elementi e unità, mentre m’inabisso per affinità nella sua poetica.
Frattanto che si stabilisce un contatto tra livelli consci e inconsci nell’incanto mitico del colore, si scompongono e relazionano momenti complementari nello spazio sensibile di un’unità che appare di rigorosa formalizzazione, ma che è più costitutiva che formale. L’unità si svela nella durata di un’esperienza conoscente che progredisce, quella dell’artista che senza interruzioni compie le azioni che tracciano temporalmente la durata di un cinquantennio; l’unità si dispiega nella molteplicità di un’esperienza cosciente che rende il fare dell’individuo “essenziale” per il pensiero.
La “natura naturans” di ogni forma suggerisce nel contempo dinamicità e compiutezza, complessità in movimento e semplicità d’ordine. La maniera della sua tecnica e l’assunto che si propone, lo collocano quale progenie di quella grande sfida che fu dei movimenti d’avanguardia europei, nello specifico cito l’avvenimento sensibile espressionista avvalendomi delle parole di E. I. Kirchner: “Movente della grafica è la gioia di trasfondere nella macchina la parte manuale della personalità dell’autore.”
Pragmatico nell’approccio metodico e finalizzato, intuitivo nell’acquisizione di principi esecutori, Tano distilla con morbidezza e fluidità inchiostro e colore, ma con la tempra e il virtuosismo di chi comprende quanto sottile e incerto sia il passaggio indistinto dalla carezza della mano che crea alla stretta del torchio che calca. Il rapporto che intercorre tra impressione e forma diviene la logica compositiva di un artista che con gesto rapido e incompiuto, traccia le prospettive psicologiche e affettive di un’apparizione intricata e inquieta, quella del personaggio assimilato e lacerato tra la dimensione corporea e quella artistica. Una traccia graffiante, contratta e profonda si offre nell’abbandono di corpi abbozzati d’attesa asimmetrica e mai figurati.
Corpi che vivono oggettivabili fra giochi di linee e macchie tonali, attivi e passivi in uno spazio mobile dove s’incrociano e rovesciano il dentro e il fuori; corpi che divengono atmosfera in un linguaggio fatto di intervalli e incastonature segniche che spostano il cuore ovunque e in ciascun luogo.
Se la tradizione appare insinuarsi con il suo carico di elementi limpidi nell’assetto di analitiche tessiture luminose, il segno si ripete asciutto, rigido e insofferente per contrasti e tensioni, quasi a interrogarsi sulla possibilità stessa della figura. Il fascino dell’assenza e il senso di vuotezza nelle opere di Tano Santoro, alludono a suggestioni segniche e gestuali dell’art autre e del tachisme, cifrari che permangono altalenanti nell’impasse fra astrazione informale e formulazioni statiche.
In questo susseguirsi di oscure tensioni spirituali, il maestro Tano lascia intravedere la costruzione di quel grande spettacolo drammaticamente incisivo che è l’esistenza, incombente nell’alternanza dei suoi momenti: luce-buio, chiaro-scuro. Tutto finisce e tutto ricomincia in una sequenza infinita di mutazioni.
Nel silenzio contemplativo della sua arte plastica, la mano del pittore tende a nascondere tacitamente, esacerbando ed esorbitando, il segreto dell’anima, privandoci dell’esperienza dello sguardo, questo perché, rifletterebbe il filosofo Jean-Luc Nancy “non si tratta più dell’organo della visione: si tratta di una presenza in custodia, in agguato di se stessa e dell’altro”. L’occhio strappato, gettato e ammassato, che raramente trova accenno nelle sue figure, non tende all’evidenza espositiva, ma è sospeso nell’interiorità trattenuta.
Alla verità della pittura di Tano si accede, ma non al primo sguardo!
Felicia Lo Cicero – San Fratello 2016
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