Al cinema l’ultimo film di Paolo Sorrentino
Arrivato due giorni fa nelle sale Youth. La Giovinezza, l’ultimo film di Paolo Sorrentino. Un film cresciuto, ripulito e sintetizzato che celebra le stagioni della vita e i transiti intimi degli esseri umani. Una visione grottesca e corale sul tempo che passa (e lascia) raccontata da una raffinatezza estetica … come Sorrentino comanda.
L’idea è quella che Youth abbia superato la prova del post- Grande Bellezza, se non altro per demolire quel limbo d’aspettativa, non sempre troppo corretto, dentro il quale il pubblico si è stretto nell’attesa di vedere il nuovo lavoro di Paolo Sorrentino, dopo il luccichio abbagliante del trascorso premio Oscar.
Se proprio non possiamo fare a meno di avanzare una critica piena e lucida del film, e per evitare di precipitare nel baratro della sua celebrazione totale e assoluta, le cose da dire immediatamente su Youth diverse e tutte riconfermano pregi e ritorni del regista napoletano. Ma due in particolare sono i caratteri più evidenti e fungono entrambi da premessa a tutto il resto, oltre ad essere fortemente interconnessi tra loro.
Il primo è che la fotografia, la raffinatezza del linguaggio e l’impegno estetico di Paolo Sorrentino costringono a elevare puntualmente le sue opere a capolavori, o perlomeno a sollevarle su gradini più alti dove il riconoscimento di un certo talento in questo senso è notevole. La seconda è poi (appunto) la tendenza, sempre liminale, ad un eccesso di estetismo in cui si rischia di incappare allentando troppo il tessuto narrativo in favore invece di una devozione totale per la maniera.
Durante la visione di Youth insomma è probabile incontrarsi di tanto in tanto con la sensazione di un rallentamento narrativo che si annacqua dentro gli inconfondibili segni incisivi di Paolo Sorrentino: le affermazioni d’effetto dei suoi personaggi ( simili a massime esistenziali) e gli accorgimenti visivi degni di un poeta dello sguardo.
Il come che sembra prevalere sul cosa.
Accettate queste due verità di fatto dello stile sorrentiniano è molto più facile arrivare a dire che forse per la prima volta nel suo percorso, il regista si scrolla di dosso il peso di una sceneggiatura troppo forte per dedicarsi con più fluidità a un film con un tessuto narrativo più esile e ripulito, che però non scade mai nel vuoto o nel non senso.
Nel complesso si tratta di un altro bel regalo cinematografico, di un film malinconico, celebrativo, trattato con elementi sarcastici e grotteschi anche sottili, abbellito e sublimato da una scelta musicale impeccabile ( ancora una volta) e da un cast d’esperienza che ne potenzia l’intensità. È un film che racconta le stagioni umane più comuni, le tappe consuete raggiunte da ogni individuo nel trascorrere degli anni, il conflitto umano perenne nel tentativo di risolvere il legame tra passato e futuro e tutti gli annessi e connessi di questo passaggio.
Ma è anche un’opera artistica che lo fa in un modo curato e diretto, dentro uno spazio scenico appositamente pensato e scelto, un luogo quasi onirico e intangibile, una location sospesa e ferma dove tutti possono sostare sull’esistenza.
Un lussuoso albergo svizzero nel cuore delle Alpi dove si ritrovano diversi personaggi famosi e non, vecchie glorie dello sport, clienti solitari appesi al filo usurato della celebrità, ricche famiglie tristi, singolari coppie di coniugi dal matrimonio tormentato. Tra i clienti c’è Fred, egregiamente interpretato dall’attore inglese Michael Caine, compositore in pensione che si trascina tra rivoli di una notorietà professionale ancora riconosciuta e un trascorso intimo e familiare segnato e irrisolto che lo elegge personalità cinica per eccellenza e protagonista catalizzatore della morale sorrentiniana. Insieme a lui c’è Mick (Harvey Keitel), amico storico di Fred e regista di fama internazionale che sta lavorando al suo testamento cinematografico al fianco di un gruppo di giovani sceneggiatori. Poi un attore ( interpretato da Paul Dano) in cerca del suo personaggio per il prossimo film e Leda ( Rachel Weisz), la figlia di Fred investita e ferita dal nubifragio che ha appena colpito il suo matrimonio. Ruotano intorno ai protagonisti personaggi e incontri satelliti che chiudono e riempiono il cerchio della
giovinezza, perduta o scalfita.
Tra tutti emerge un Maradona invecchiato e sovrappeso che comunica, oltre alle note passioni/ossessioni del regista, l’atroce sopportazione di dover fare i conti con una decadenza corporea fatale e una tagliente e incisiva Jane Fonda che interpreta invece la decadenza artistica di un’attrice hollywoodiana che si vende alla TV.
Tutti i personaggi si incontrano e si incastrano nella ricerca o nella risoluzione di qualcosa, tutti si concedono a quella stasi fisica necessaria per rispondere al lavorio intimo delle loro anime. Oltre le storie di vita si mescolano decine di strati profondi e di sensi intimi, di debolezze umane e di conquiste, in una sintesi narrativa che tiene insieme tutti questi pezzi in un movimento leggero e fluido, ma mai banale.
Un film elegante e di gusto che racconta le vite attraverso un gioco specchiato in cui alla compostezza e al rigore esteriori fa contro un travaglio intimo vivace. Un altro marchio di fabbrica per Paolo Sorrentino che oltre a confermare il suo talento con questo nuovo passo conduce il cinema italiano verso quel rinascimento tanto atteso, io dico verso una vera rivoluzione cinematografica negli ultimi piatti vent’anni di produzione italiana. Finalmente un cinema forte e riconoscibile che si nutre di tributi continui a grandi maestri, come Fellini o a personaggi ispiratori ( è vero) ma che permea anche tutta la cultura estetica di un paese che per troppe cose sembra invece averla dimenticata. Le scene di Youth sono quadri caravaggeschi frammentati dalla luce e dall’ espressività anatomica dei corpi, i personaggi tratteggiati sempre al limite delle loro peculiarità fisiche e interiori, la ricerca musicale attenta e indagata, i dialoghi resi importanti nell’essenzialità.
Dal particolare -italiano- della Grande Bellezza all’universale umano di Youth, ci ritorna un Sorrentino più destrutturato e meno artificioso, anche se per fortuna sempre stravagante.
Youth celebra il lato buono ( ma inevitabilmente malinconico) della maturità umana e Paolo Sorrentino celebra ancora una volta gli uomini, tutti quegli individui che seppure incastrati nei loro doverosi tormenti si salvano sempre per passione o per amore.
Quindi semplicemente Youth celebra anche il sentimento che alla fine si eleva sempre su qualsiasi complicazione dell’esistenza.
Insomma non ci caschiamo più nella trappola di questi personaggi arcigni e disillusi che sembrano guardare la vita di traverso, senza abbracciarla, senza picchi di umana tensione, la verità di cui Youth ci imbocca è un’altra: che la vita è intensa e decisiva fino alla fine e che la giovinezza è una soluzione dell’anima senza limiti di tempo.
Valentina Siligato
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.